Società

Fumo, le etichette choc funzionano? Mi confronto con chi non la pensa come me

Sigarette675

Il mio precedente post, in cui sostengo l’inefficacia delle immagini choc sui pacchetti di sigarette, ha suscitato un interessante dibattito. Oltre alla diatriba fra ministero della sanità e fumatori – i quali vogliono esser lasciati liberi di fumare senza sentirsi dei suicidi -, il dibattito è anche fra chi, come me, sostiene l’inutilità di queste etichette e chi, come alcune associazioni, le ritengono utili.

La replica più dettagliata l’ho ricevuta dalla Campaign for Tobacco-Free Kids di Washington, a firma del loro esponente Claudio Tanca. Riporto le argomentazioni dell’associazione contro il tabacco e la mia risposta, invitando come sempre tutti voi ad esprimere le vostre opinioni in merito.

Rispondo nel dettaglio alla sua replica. Lei dice:

I critici letterari del Washington Post hanno definito le conclusioni a cui è giunto Lindstrom nel suo libro come “spiegazioni pseudo scientifiche formulate per favorire l’incremento dei budget pubblicitari”. Inoltre questo studio non è stato oggetto di revisione da parte di altri scienziati o ricercatori. La sua natura sperimentale unita alla dimensione ridotta del campione non consentono alcuna generalizzazione riguardo l’impatto delle etichette sulle popolazioni dei paesi presi in esame. A maggior ragione, non si possono estendere tali conclusioni a tutti gli altri paesi del mondo che hanno adottato tali etichette.”

Concorderà sul fatto che “i critici letterari” di un giornale, seppur autorevole, non abbiano titolo per liquidare un dibattito scientifico così importante. Quelle che considerano “spiegazioni pseudo scientifiche”, sono ottenute attraverso un metodo, quello della risonanza magnetica funzionale (fMRI) all’epoca quasi sconosciuto. Questo metodo, come tutte le innovazioni, ha suscitato inizialmente alcuni interrogativi nel mondo della scienza, salvo finire poi largamente adottato. Grazie ad esso (e i nostri lettori potranno averne prova guardando qualunque documentario scientifico in tv) sono state fatte grandiose scoperte. In questo caso Lindstrom ha vissuto la tipica situazione dell’autore stroncato dai critici e acclamato dalla storia.

La sua lettera continua:

Tali studi affermano l’esatto opposto e cioè che le etichette che contengono frasi ed immagini choc: 1) informano i consumatori riguardo i rischi del tabagismo, 2) dissuadono i ragazzi dal cominciare a fumare, 3) spingono i fumatori incalliti a smettere, 4) contrastano le strategie di marketing delle multinazionali del tabacco.

Punto 1. Che queste immagini, come le scritte, contribuiscano ad informare è fuori dubbio. Tutti i cartelli lo fanno. Che questo sia collegato col non fumare è un altro paio di maniche. Basti pensare che nel caso di malati curati per tumori polmonari, continua a fumare una percentuale di pazienti compresa tra 11% e 48%, mentre nel gruppo delle neoplasie di pertinenza otorinolaringoiatrica la percentuale si assesta tra il 21% e il 35%. Arriva perfino al 70% la percentuale di chi continua a fuma pur essendogli stato diagnosticato un cancro ematologico. L’informazione (in questo caso una diagnosi) da sola non basta.

Sugli altri punti rispondo analizzando gli studi che cita come fonte a essi. Il contenuto dei link che segnala è ben riassunto da uno in particolare, questo, di cui riporto i concetti salienti, seguiti dalle mie repliche.

Il fatto che sempre più Paesi adottino le etichette choc non ne prova l’efficacia. Nella storia svariati comportamenti collettivi si sono rivelati spesso dannosi. Basti pensare al riscaldamento globale in atto o, per fare un esempio diverso, all’uso dell’amianto che abbiamo fatto per decenni.

Riguardo la dichiarazione: As Canadian Cancer Society says in their press release, “A picture says a thousand words. Pictures can convey a message with far more impact than can a text-only message… the effectiveness of warnings increases with size.”. E’ esattamente quello che, con altri termini, dico nel mio post: le immagini (ovvero la comunicazione non verbale) comunica in modo enormemente maggiore rispetto alle semplici scritte (comunicazione verbale). Questo è un punto che condividiamo. La domanda che pongo però è su quale effetto abbiano queste immagini.

L’ultima frase di questa citazione è particolarmente interessante: “l’efficacia delle avvertenze aumenta con la loro grandezza”. Questo sembra confermare la mia versione: non sempre sono quelli più razionali i motivi per cui interrompiamo o meno un’abitudine (le scienze cognitive ce lo dimostrano. Anch’esse, ora usate da governi e multinazionali, hanno suscitato polemiche nel primo periodo della loro diffusione).

Il fatto che più sia grande l’immagine, più sia efficace, fa pensare che l’effetto non sia dovuto al contenuto della foto in sé, ma al fatto che copra il pacchetto. Scatola che, come lei riconosce, è un vero strumento di marketing per l’industria del tabacco. In Australia infatti sembra essere efficace l’idea di fare pacchetti tutti uguali, neutri, senza loghi in vista, e altre nazioni stanno facendo studi positivi al riguardo.

La marca di sigarette è uno status simbol. Nasconderla (con qualunque cosa) toglie parte del fascino attribuito al fumare.

Anche la conclusione secondo la quale “If picture warnings did not work to reduce smoking, then the tobacco industry would not be opposed”, ovvero che se le immagini di avvertimento non funzionassero nel ridurre il fumare, allora l’industria del tabacco non si opporrebbe, sembra più una supposizione che una dimostrazione scientifica. Sappiamo che le lobby non sopportano neanche una minima modifica imposta al proprio settore. Sia perché temono una escalation proibizionista, sia per trasmettere un senso di protezione e sicurezza nella categoria, non apparendo deboli.

Poiché ho criticato alcune strategie senza proporre soluzioni, mi permetta di indicare brevemente quella che secondo me è la reale fonte del problema del tabagismo dalla quale partire. Condivido la teoria di Allen Carr (scrittore del libro E’ facile smettere di fumare), autore che merita un riconoscimento per la quantità di persone che ha aiutato a smettere di fumare (compreso il sottoscritto). Carr sostiene che i fumatori siano vittime di false credenze, come quella che smettere sia doloroso o che un fumatore è sexy. È dunque, ancora una volta, quella culturale la battaglia che dovremmo fare. Attraverso una comunicazione positiva, ovvero che proponga e non neghi. Accanto all’eroe fumatore e bevitore incallito che ci viene proposto nelle serie tv, sarebbe opportuno creare modelli altrettanto affascinanti che rifiutino certi vizi e facciamo apparire sexy la loro determinazione. Il tutto mai – questo è il mio pensiero – in direzione proibizionista. Sia perché sono un difensore del libero arbitrio, anche riguardo a vizi e sostanze, ma soprattutto perché proibire qualcosa non risolve mai il problema. Piuttosto ne crea altri, come il mercato nero.