finocchiaro boschi 675Alla fine di questa corsa senza precedenti imposta dall’esecutivo per portare a casa la madre di tutte le riforme che “il paese aspetta da 70 anni”, e cioè da prima che i Padri costituenti delineassero l’aborrito bicameralismo perfetto, il leit motiv dei sostenitori è sempre lo stesso, sempre più insostenibile: “Se salta tutto vince l’antipolitica”.

E’ lo slogan che accomuna “la signora delle istituzioni”, Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, già pronta ad essere la prima donna al Colle, amata da Silvio e stoppata da Renzi per senso dell’opportunità e il grande “saggio” bipartisan Luciano Violante che ha messo in guardia dal dilagare dei veleni dell’antipolitica in caso di fallimento sul Senato.

En passant, nella stessa intervista al Corriere in cui poneva l’alternativa tra il successo delle riforme e viceversa il prevalere delle tossine del populismo  che avvelenerebbero il sistema ha anche riconosciuto come tra i rischi non evidenziati adeguatamente dai contestatori delle riforme spicca quale indesiderabile effetto “collaterale” del combinato disposto Italicum-Senato la possibilità che il partito che ha ottenuto il premio collegato al 40% possa varare da solo l’amnistia e quindi “autoamnistiarsi”.

Dunque pur di sconfiggere il drago dagli occhi iniettati di sangue che con il fumo dalle narici si avventerebbe contro le istituzioni, incarnato forse da Luigi di Maio dato che Salvini non perde occasione per ribadire come “gli italiani con il Senato non mangiano”, bisogna andare avanti, mettere i piedi sulla testa della seconda carica dello Stato oggetto di insinuazioni inaudite e stringere i tempi con pressioni di ogni genere, dopo aver “mediato” con l’esangue e prostrata minoranza interna sul pasticcio della doppia lista dei designati e degli eletti.

E d’altronde se si tratta di tracciare la linea insuperabile di difesa della politica e del sistema dall’invasione letale della cosiddetta antipolitica, espressione sempre più priva di significato, varrà bene la pena come sostiene Anna Finocchiaro, una Giovanna D’Arco convertita al renzismo per amore delle istituzioni “credere in questa riforma perché è meglio una legge imperfetta che nessuna legge”.

Di questa corsa che dovrebbe concludersi entro il 15 ottobre come ha previsto e ordinato contemporaneamente Matteo Renzi con tanto di relativo ulteriore scontro con Piero Grasso, e che ha registrato tra molto altro un’altra trasmigrazione di “responsabili” nell’indifferenza della grande stampa più sensibile all’àplomb della Finocchiaro, quale immagine e quale impressione rimarrà negli occhi dei cittadini? Per quelli che come dice Calderoli del Senato se ne fregano e magari badano agli 80 euro e ora alle promesse fiscali sulla prima casa probabilmente sarà del tutto indifferente. Ma per gli altri, quelli che si domandano se davvero cambiare per cambiare sia per principio la cosa giusta e si interrogano su quali siano i vantaggi in termini di rappresentanza e di funzionalità del nuovo Senato renziano e se valeva la pena di imbarcare i verdiniani, forzare i tempi, andare a uno scontro istituzionale per avere con qualche aggiustamento il “Senato da dopolavoro”, secondo la definizione della presidente della Commissione Affari Costituzionali prima del suo ravvedimento operoso? Come può essere ascritto a successo della politica e del partito di governo un risultato così misero e sgangherato sul piano della qualità riformatrice e pericoloso sotto il profilo dell’immunità a consiglieri e soprattutto ai 21 sindaci-senatori, ingiustificata e scollegata sotto il profilo funzionale? Se sono queste le misure e gli argomenti con cui arginare “i pericoli del populismo”, come se Renzi non li rappresentasse nel modo più pieno e manifesto, lasciamo pure che i “rottamati” continuino ad essere i più convinti testimonial del renzismo.

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