Pietro Ingrao è morto. Cento anni lo scorso 30 marzo, viene da alzarsi in piedi per omaggiarlo. E dire, come una volta si faceva: è morto un comunista. L’ultimo, di quella generazione nata sull’idea e il modello del bolscevismo che in Italia, come in pochi altri paesi, hanno messo radici così profonde da incarnare l’impegno alla lotta al regime fascista, condizionando poi nel profondo nascita e crescita della Repubblica.
Si possono anche non condividere la causa e le idee per le quali si è impegnato e che sino all’ultimo, solitario, Ingrao ha coltivato e rappresentato. Ma con lui se ne va davvero l’ultimo grande leader di una fase della nostra storia che, con le sue tragedie, contraddizioni, grandezze e aspirazioni tanti italiani sembrano purtroppo volere decisamente archiviare.
Se ne va un comunista, un rivoluzionario, uno statista, un sognatore. Se ne va l’”eroe del dubbio”. Il dubbio di un uomo immerso in una sinistra divisa tra il messianismo rivoluzionario e la cinica ragion di partito, utopia e senso della realtà politica, movimentismo e rispetto dell’organizzazione di appartenenza. Andrea Camilleri nel 2008 coniò nel migliore dei modi questo vedere e vivere il senso della propria esistenza e del proprio impegno politico del dirigente del Partito cominista italiano. «Il dubitare di Ingrao», scrisse Camilleri, «è sempre la messa in moto di un motore che elabora il che fare più attinente al fine proposto, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del percome».
Se ne va un comunista, un rivoluzionario, uno statista, un sognatore
Concetto complicato, che il dispiegarsi della vita di Ingrao illustra però meglio di qualsiasi altra cosa. Forse pensa all’Ingrao artista, al poeta, al giovane appassionato di cinema che questo dirigente del Pci è sempre stato, Camilleri. Ma la sua definizione ben si adatta anche per comprendere la parabola del leader capace di accendere dibattiti ma pur sempre impastoiato dalle ragioni dell’appartenenza e perciò impossibilitato agli strappi decisivi, definitivi che tanti suoi seguaci si aspettavano. Quando questo dubbio lui stesso teorizza, nel Pci, nato all’insegna dell’obbedienza alle “istanze superiori” del centralismo democratico, si discuteva sulla linea, rischiando la testa, va da sé. Perciò Ingrao rivendica il “diritto al dissenso”, del quale il dubbio poteva essere il nobile pilastro, adeguato a dargli dignità per renderlo digeribile alla nomenklatura comunista. Correva il 1966: “Il dubbio mi scuoteva”, ha spiegato poi Ingrao, “Vedevo in esso un’apertura alla complessità della vita: dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare, aprirsi al molteplice del mondo. Sì, vivevo il piacere del dubbio”.
Il dissenso dal Pci: “Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio”
C’è tutto Ingrao in questa complessità, tutta la sua innata problematicità, la sua incompiutezza di leader. E’ l’Ingrao nato a Lenola il 30 marzo del 1915, famiglia borghese, liceo a Formia, trasferimento a Roma. Per uno della sua condizione l’adesione alla classe operaia non è scontata. E nel 1934 lo vediamo brillare ai Littoriali, manifestazioni sportive e culturali riservate agli universitari fascisti. Riesce a farsi onore: «Partecipai ai Littoriali della Cultura», ha raccontato, «a quelli di critica teatrale e alla gara di poesia, con una breve lirica». Esaltava Littoria e la bonifica delle paludi pontine.
Il mito del comunismo è lontano, Ingrao si iscrive a giurisprudenza e al centro sperimentale di cinematografia, dove resiste poco più di un anno. Lo abbandona, insieme agli studi, a causa della guerra di Spagna: «Il 17 luglio 1936», racconterà, «è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. Non tornai più al centro sperimentale. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza». Questo è il giovane Ingrao. Prenderà la laurea poi, si rivelerà un poeta, ma al primo posto nella sua esistenza resterà per sempre l’impegno comunista.
Il 17 luglio 1936 è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza
La dedizione è totale. Lavora clandestinamente per il partito negli anni del fascismo. Cade la dittatura, viene eletto in Parlamento, entra nella segreteria del Pci. Che, a partire dal 1947 e per dieci anni, gli affida la direzione de “L’Unità”. Del Pci, Ingrao si afferma come uno dei massimi dirigenti, dopo Togliatti tra i più amati. Ha peso, anche se relegato al ruolo dell’eterno oppositore. Uomo di prestigio che, non a caso, nel 1976 diventa il primo comunista eletto alla presidenza della Camera. Un traguardo inimmaginabile nei giorni lontani del ritorno alla democrazia. Quando nell’animo del giovane rivoluzionario si agitavano ben altri intendimenti. Dirà : «Mi portavo dentro la convinzione di un momento insurrezionale risolutivo. Forse agiva anche il ricordo mitico dell’assalto al Palazzo d’Inverno tramandatoci dall’epica della rivoluzione bolscevica. E negli angoli remoti della mia mente restava sempre ben fissa l’ipotesi del momento in cui ci saremmo trovati – l’uno di fronte all’altro – noi rivoluzionari e le truppe del grande capitale». Drammatica contraddizione: «Da una parte seguivo con ardore la costruzione dello Stato democratico, dall’altra coltivavo l’attesa della crisi rivoluzionaria».
Nel 1976 diventa il primo comunista eletto alla presidenza della Camera. Un traguardo inimmaginabile nei giorni lontani del ritorno alla democrazia
Ricordi intensi e che spiegano l’altra faccia di Ingrao: quella dura dell’uomo di partito che si vincola al burocratismo dell’Ufficio di Informazione dei Partiti Comunisti e Laburisti, il famigerato Cominform, asservito a tutte le degenerazioni dello stalinismo. Una tragedia nella carriera di Ingrao. Spiegherà lui stesso : «Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto». L’errore più grande, certo. Frutto di una cultura totalizzante che lo inchioda alla tradizione che dell’Unione sovietica aveva fatto un mito. Arrivano così le pagine più discusse della sua carriera. Come capitò nel 1956, quando la storia offrì al Pci l’opportunità di rompere con gli orrori staliniani. Il futuro presidente della Camera si ritrovò invece dalla parte sbagliata. Era scoppiata la rivoluzione ungherese contro l’oppressione sovietica. Le truppe di Mosca intervennero, migliaia furono i morti. E grande fu la reazione nel mondo, la sinistra europea si ribellò, si ribellò anche quella italiana. Tanti intellettuali e dirigenti, come Italo Calvino, Eugenio Reale e Antonio Giolitti, abbandonarono il Pci. Ad Ingrao contro gli insorti toccò al contrario confezionare “l’Unità” di quel terribile 25 ottobre: “Le bande controrivoluzionarie vengono costrette alla resa dopo i sanguinosi attacchi contro il potere socialista”, sentenziava la prima pagina. E sempre a lui spettò il compito di firmare l’editoriale “Da una parte della barricata a difesa del socialismo”.
Nella rivolta d’Ungheria fu dalla parte sbagliata. Poi dirà: “Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto”
E, ancora, come capitò tra il 1968 e il 1969 quando gli amici della rivista “Il Manifesto”, che con lui avevano combattuto per la democrazia interna nel Pci, trovarono la forza per rompere con il filosovietismo, aprendo alle istanze dei movimenti giovanili. Furono presto emarginati. E quando i vertici deliberarono la cacciata di Luigi Pintor, Aldo Natoli e Rossana Rossanda, ebbene in quel frangente decisivo Ingrao abbandonò i compagni al loro destino, preferendo le ragioni della Ditta.
Eppure era stato lo stesso Ingrao, un paio di anni prima, a rivendicare contro Giorgio Amendola il famoso diritto al dissenso. Una rivendicazione che lo aveva fatto assurgere a punto di riferimento per quanti nella sinistra cercavano la via dell’emancipazione dall’Urss e dal togliattismo. E non solo dentro il Pci. Ad Ingrao guardavano anche gli altri partiti che si richiamavano al movimento operaio. Solo che il Pci non tollerava niente del nuovo che nasceva o poteva nascere alla sua sinistra. Una linea brutale, a dirla tutta, alla luce non solo della sorte toccata alla fazione del Manifesto, ma anche di quella riservata ai gruppi extraparlamentari (non tutti da buttare) e alla gran parte dei dirigenti del Partito socialista italiano che, proprio criticando la linea filo-sovietica del Pci, furono oggetto di campagne pesantissime.
Fu critico con la svolta di Occhetto, ma deciso a rimanere nel partito
Ma così sono andate le cose. E mentre il Psi denunciava le degenerazioni del socialismo reale, il segretario del Pci Enrico Berlinguer ancora nel 1983 si permetteva di ripetere che l’Urss era una società socialista con “qualche tratto illiberale”. Qualche. Proprio così, mentre già l’impero sovietico era sulla via di quel disfacimento che nel giro di pochi anni avrebbe portato alla caduta del Muro di Berlino e il nuovo segretario del Pci, Achille Occhetto, a cambiare nome al partito. Una decisione che vede Ingrao fortemente critico, ma deciso a rimanere.
Siamo ai bagliori finali della vita pubblica del grande sognatore. Deputato fino al 1992, sparisce dalla scena politica. Scriverà anche una sua biografia, “Volevo la luna”. Continuerà a far sentire di tanto in tanto la sua voce. Nel 2013, dopo la simpatia per Rifondazione comunista, dichiara di votare Sinistra ecologia e libertà. Sempre rivendicando le ragioni del dubbio. Il dubbio di un uomo a cui forse la vita avrà consentito con la sua poesia di conquistarla, quella luna. Mentre gli ha certamente negato il paradiso in terra, la terra promessa del comunismo che il marxismo aveva fatto balenare nei suoi sogni di militante. Ma questa, visto come le cose sono andate, non è detto sia stata poi una gran perdita.