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Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, il grande addio di Hideo Kojima alla saga che lo ha reso celebre

Meno scene d’intermezzo e più parti giocate: la nuova avventura di Big Boss cambia pelle, ma il livello qualitativo resta altissimo.

Dopo quattro capitoli ufficiali e numerosi spin-off, la saga di Metal Gear Solid sembrerebbe giunta al capolinea con The Phantom Pain. Il condizionale è d’obbligo, vista la portata del brand, ma è difficile ipotizzarne la sopravvivenza, quantomeno in questa forma, dopo la rocambolesca, traumatica e insanabile separazione tra Konami, publisher nipponico ormai coinvolto in affari e mercati che travalicano la sola industria videoludica, e Hideo Kojima, padre della serie nonché game designer di fama internazionale.

Lo sviluppo di Metal Gear Solid V è stato lungo, tortuoso, irrimediabilmente compromesso da una spaccatura, quella tra produttore e sviluppatore, sempre più evidente e tormentata. C’era il rischio che qualcosa potesse andare dannatamente storto, che i fan dovessero accontentarsi, dopo anni di attesa, di un giocattolo rotto e incompleto. Così non è, fortunatamente, perché nel firmamento dei titoli disponibili sulle console di nuova generazione, l’ultima fatica di Kojima brilla di una luce abbagliante.

The Phantom Pain, è questa la novità, non sfrutta gli stessi meccanismi dei suoi predecessiri per fare breccia nei cuori del suo pubblico. Se Guns Of the Patriots era una sorta di film interattivo, zeppo com’era di lunghissime scene d’intermezzo, questo episodio strizza l’occhio al medium che negli ultimi tempi spadroneggia e detta le nuove regole di produzione creativa: le serie TV. Il designer giapponese, sempre desideroso di parlare del mondo attraverso le sue opere, aggiorna la sua creatura modificandone gli stilemi e aggiornandone il gameplay.

Da una parte abbiamo uno Snake, “Venom” Snake, pressoché irriconoscibile. Taciturno, mutilato e sfigurato nel volto, sembra trascinarsi da un campo di battaglia all’altro con apatia, senza opporre nessuna resistenza, così diverso dall’eroe, dal mercenario romantico di cui ci siamo perdutamente innamorati in Snake Eater. Come se non bastasse, è questo l’aspetto più controverso del gioco, la trama evita di svilupparsi in lunghe, complesse e ben dirette scene d’intermezzo. Lascia che buona parte dei fatti sia spiegata attraverso cassette audio il cui ascolto è totalmente facoltativo, concentrandosi appena sulla complessità psicologica dei personaggi tirati in ballo.

Si tratta di una svolta epocale, che non mancherà di infastidire e inorridire gli irriducibili, che fa il paio con un gameplay in buona parte rinnovato. Nonostante la divisione in tante piccole missioni, altra vicinanza al modo di concepire e produrre una serie TV, l’azione di gioco è spalmata in due gigantesche ambientazioni liberamente esplorabili. La grandezza di questo episodio la si carpisce a poco a poco, quando lentamente ci si accorge di come ogni approccio e strategia sia consentita per raggiungere il proprio obiettivo. Che si tratti di trarre in salvo prigionieri, distruggere o assassinare, l’infiltrazione senza vittime ha la stessa efficacia e validità di un’incursione a mitra spianati in stile Rambo. Tra armi di ogni tipo e gadget tecnologici dai molteplici utilizzi, si deve anche trovare il tempo per gestire la Mother Base: un gigantesco complesso che, grazie ai soldati e alle risorse recuperate sul campo di battaglia, vi garantirà nuovi strumenti utili alla causa.

The Phantom Pain è un capitolo della saga di Kojima che si può amare e apprezzare solo se si sgombera la mente da pregiudizi e aspettative. È un Metal Gear diverso, che mette in secondo piano la trama rispetto al gameplay, che sacrifica la figura di Big Boss, e dei suoi acerrimi nemici, per immergerci in un mondo virtuale coerente, vivo, pieno di possibilità. È un Metal Gear poco video e molto gioco che cambia le regole solo per regalarci una delle esperienze ludiche più riuscite degli ultimi anni. Speriamo solo che Kojima, anche lontano da Konami e da Snake, possa ripetersi con altrettanta efficacia e coraggio.

A cura di Lorenzo Fazio

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