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Negli ultimi mesi si è assistito a un ampio fronte di protesta contro le trivellazioni per la ricerca di petrolio in mare, protesta più che legittima – direi sacrosanta- per la delicatezza degli ecosistemi marini e che – fortunatamente – ha trovato ampia eco sui media e sulla stampa. Anche numerose regioni si sono dichiarate contrarie e addirittura è stato proposto un referendum per abrogare la ricerca di idrocarburi in mare; per il presidente dei Medici per l’Ambiente della Sardegna tuttavia “l’iniziativa referendaria è debole, perché non mira ad abrogare le norme contenute nel decreto Destinazione Italia che trasferiscono in capo allo Stato le competenze sulle trivellazioni a terra relative allo sfruttamento delle risorse geotermiche. Inoltre, non si contestano le norme sulle trivellazioni contenute nell’ultima Finanziaria” .

L’articolo 38 del decreto Sblocca Italia apre infatti la strada anche alla ricerca di idrocarburi con “trivelle onshore” (in terra) e viene scritto che: “le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili. I relativi decreti autorizzativi comprendono pertanto la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’opera e l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio dei beni in essa compresi…” Ma la ricerca di idrocarburi a terra non è certo meno scellerata di quella in mare: comporterebbe innanzitutto un notevolissimo consumo di suolo che passerebbe – come risulta da un recente documento di Isde – dagli oltre 43mila chilometri quadrati attuali a quasi 80mila chilometri quadrati.

Ma a parte il consumo di territorio qualcuno può forse ancora illudersi che l’impatto delle trivellazioni a terra sia scevro da rischi? Un recente libro “L’impatto ambientale del petrolio in mare e in terra” chiarisce ogni dubbio. Il libro, di carattere divulgativo ma assolutamente scientifico, è opera di esperti che si sono assunti il compito di condensare le indagini e conclusioni di tecnici e studiosi di gran parte dl mondo, nonché le loro esperienze personali: si tratta di Massimo V. Civita, Ordinario di Idrogeologia Applicata presso il Politecnico di Torino ed Albina Colella, Ordinario di Geologia presso l’Università della Basilicata. L’elenco dei potenziali danni comprende danni non stimabili né riparabili quali quello all’ambiente terra nel suo complesso, alla perdita di vite umane, alla salute di chi risiede in prossimità dei pozzi, dei centri di trattamento, dei siti di stoccaggio, ma anche danni alla quantità e qualità delle risorse idriche superficiali e profonde destinate al consumo umano, all’agricoltura, nonché danni al turismo.

Proprio la professoressa Colella nella relazione sulla “Qualità delle acque in un territorio sede di estrazioni petrolifere”, tenuta lo scorso 24 settembre all’Istituto Superiore di Sanità nel corso del Convegno in memoria di Lorenzo Tomatis, ha illustrato dati inequivocabili sulla presenza di idrocarburi in acque, sedimenti, pesci d’acqua dolce e alimenti in aree di estrazioni petrolifere in Basilicata. Appare davvero singolare a questo proposito l’opposizione della Regione Basilicata alle trivellazioni a mare, quando a terra,  ad esempio, il numero delle aziende agricole nella Val D’Agri ( interessata dalle estrazioni petrolifere) è passato dalle 4.408 del 2000 alle 1795 nel 2010, e la superficie agricola utilizzata nello stesso arco di tempo è calata di oltre il 16%. Nell’ottobre scorso, sempre in risposta al Decreto “Sblocca Italia” un gruppo di ricercatori e scienziati di levatura internazionale, che fa capo al Prof. Vincenzo Balzani di Bologna, ha scritto in una lettera aperta al Governo . In questa lettera si afferma fra l’altro che “La fine dell’era dei combustibili fossili è inevitabile, e ridurne l’uso è urgente per limitare l’inquinamento dell’ambiente e per contenere gli impatti dei cambiamenti climatici… E’ necessario promuovere, mediante scelte politiche appropriate, l’uso di fonti energetiche alternative che siano, per quanto possibile, abbondanti, inesauribili, distribuite su tutto il pianeta, non pericolose per l’uomo e per l’ambiente, capaci di colmare le disuguaglianze e di favorire la pace (…). Le energie rinnovabili non sono più una fonte marginale di energia, come molti vorrebbero far credere: oggi producono il 22% dell’energia elettrica su scala mondiale e il 40% in Italia, dove il fotovoltaico da solo genera energia pari a quella prodotta da due centrali nucleari”.

Perché il parere autorevole di scienziati e ricercatori scevri da conflitti di interesse, ma anche quello di medici che hanno a cuore la tutela della salute pubblica, non vengono mai tenuti nella dovuta considerazione? Perché nel sempre più ampio panorama di coloro che capiscono l’importanza della difesa dell’ambiente,  gli obiettivi che si vanno a perseguire sono purtroppo troppo spesso parziali o distorti? Credo che solo documentandosi su fonti di indubbio valore come il libro che ho citato, non delegando a terzi la gestione dei problemi più spinosi e tornando a ragionare il più possibile in modo autonomo e critico, le varie comunità possano mettere a fuoco i giusti obiettivi e le strategie per difendersi. E nel caso specifico auspico che al più presto si attivi una vasta e condivisa azione di protesta anche contro le trivellazioni a terra.

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