Come Toyota e GM, anche la Volkswagen si trova a chiedere scusa per errori e scorrettezze. Ma cambiare l'amministratore delegato con uno "non compromesso" non è sufficiente. Le rivelazioni di stampa degli ultimi giorni dimostrano che i vertici dell'azienda "non potevano non sapere": la casa tedesca deve molte spiegazioni ai consumatori
Nel 2010 era toccato ad Akio Toyoda, numero uno di Toyota. Nel 2014 l’aveva imitato Mary Barra, la nuova guida di General Motors. Qualche giorno lo ha fatto anche Martin Winterkorn (nel video in basso), ormai ex CEO di Volskwagen Group. Tutti si sono scusati pubblicamente per i gravi errori compiuti dall’azienda che dirigono (o dirigevano). È questa la responsabilità sociale delle imprese, in questo caso i primi tre costruttori mondiali di auto? Sono vicende differenti, tutte cominciate negli Stati Uniti, la patria della democrazia, delle inchieste feroci e delle class action miliardarie. Tutte sono gravi. Perché dimostrano, o confermano, a seconda dei punti di vista, che ai consumatori vengono rifilate un sacco di frottole. Dimostrano, o confermano, a seconda dei punti di vista, che non ci sono norme abbastanza severe da non poter essere aggirate. E, soprattutto, che ci sono colletti bianchi che se ne fregano della legge.
Perché, almeno per ora, non si parla di quelli che si potrebbero definire, “volgari delinquenti” che i cosiddetti giustizialisti vorrebbero rinchiudere nel primo carcere e buttare via la chiave. Queste sono altre storie. Sono storie che impongono ulteriori domande. Il caso Volkswagen, una delle aziende simbolo della Germania, perfino nel nome (l’auto del popolo), le solleva. Un costruttore così ricco di storia non meritava di venire trascinato nel fango in questo modo né tanto meno lo meritavano i quasi 600.000 lavoratori impiegati a livello planetario.
L’orgoglio di Volkswagen era che sono sempre stati gli ingegneri ad occuparsi di auto. Cioè gente esperta, preparata, che sapeva di cosa parlava. Non venditori, gente del marketing. No, no: proprio ingegneri. Sia Winterkorn sia il nuovo amministratore delegato Müller hanno spiegato che il danno è stato causato solo da un manipolo di persone, anche se adesso è saltato fuori che nel 2007 il fornitore del software, Bosch, aveva informato dei profili di illegalità del suo utilizzo, e che nel 2011 lo aveva ribadito anche un documento interno. Si sfalda un po’ la già debole linea difensiva secondo la quale sotto il naso degli ingegneri, questi pochi malandrini avrebbero agito indisturbati in modo sistematico e per sei anni in modo tale da frodare sulle emissioni. Ad acquistare un software per usi interni ed a utilizzarlo in modo fraudolento su un numero impressionante di veicoli. Prima 482.000 negli Stati Uniti, poi 11 milioni a livello planetario e adesso 2,8 nella sola Germania, veicoli commerciali inclusi.
Nessuno, a Wolfsburg – dove secondo le autorità americane si tiravano i fili della truffa, ecco perché Michael Horn, capo delle operazioni negli Usa, è stato confermato nella sua posizione – negli incontri fra esperti ingegneri, si è mai chiesto quale misteriosa tecnologia avesse permesso ai propri motori a gasolio di diventare così efficienti da rientrare nei più severi parametri americani. I tedeschi (giustamente) si sono sempre chiesti come l’Italia abbia potuto bersi la vicenda di Berlusconi e di Ruby nipote di Mubarak. Ma per onestà intellettuale oggi è indispensabile che anche la Germania si chieda come in Volkswagen (che ha un socio pubblico, cioè il Land della Bassa Sassonia) sia stato possibile che accadesse quello che è accaduto.
Per “mettere ordine” è stato scelto un manager dal curriculum impeccabile come Matthias Müller, la cui carriera è tuttavia completamente interna al gruppo e pure legata sia a Winterkorn sia a Piech, il patriarca. È stato scelto perché non era “compromesso”. Una spiegazione accettabile se si conoscessero i nomi dei “compromessi”. Nel valzer di poltrone deciso dal Consiglio di Sorveglianza, ci sono solo conferme o promozioni. Con due eccezioni: il dimissionario Winterkorn, destinato a quanto pare a rimanere a capo del CdS di Porsche SE, la holding attraverso la quale le due grandi dinastie (Porsche e Piech) controllano il 50,7% dei diritti di voto del gruppo Volkswagen ed il 32,2% del capitale, e Christian Klingler, il responsabile di vendite e marketing silurato ma “divergenze di opinioni” che nulla hanno a che vedere, informa una nota con il diesel-gate. I numeri uno di Skoda e Seat (marchi che montano gli stessi motori a gasolio delle prestazioni ambientali “miracolose”) hanno ottenuto significativi avanzamenti, così come l’italiano Luca De Meo proveniente dall’Audi.
Le note ufficiali non sembrano quelle di una riunione con provvedimenti di emergenza da assumere. Di Ulrich Hackenberg e Wolfgang Hatz, circa i quali Volkswagen non ha reso noto dettagli, ma rimossi a causa del diesel-gate, non si parla. Se la logica del “non poteva non sapere” ha un valore universale e non si applica “ad personam”, nella riorganizzazione Volkswagen restano molti dubbi. Se negli Stati Uniti le prime lettere ai clienti sono partite già in primavera, su cosa hanno lavorato i manager – compromessi e non – in questi mesi? Le scuse non bastano, servono spiegazioni. Complete. Non solo per l’opinione pubblica, ma per la credibilità della stessa Volkswagen e del “Made in Germany”.