“In Europa il diesel conta per più del 50% delle vendite, nel resto del mondo sviluppato – per esempio Stati Uniti e Giappone – rappresenta appena l’1% del parco circolante”, dice il Financial Times. “I costruttori europei hanno seguito questo sentiero non per la superiorità tecnologica del diesel, che era storicamente confinata ai veicoli commerciali, ma perché ha il grande vantaggio di contenere i consumi”, e dunque le emissioni di CO2 sul cui abbattimento cui l’Unione Europea continua ad alzare il tiro. Nel Vecchio Continente, tutti i costruttori – tedeschi, francesi o italiani che siano – hanno speso enormi quantità di denaro per perfezionare i motori a gasolio, fino a farli diventare la vera alternativa a quelli a benzina. Secondo il giornale britannico, quella sul diesel potrebbe essere stata una scommessa sbagliata, come quella della Sony con le video cassette Betamax.
Ma davvero la truffa (per quanto grave) di un solo costruttore (per quanto sia il primo europeo) può mettere in crisi un intero settore industriale, ed essere l’inizio della fine per il diesel? Sarebbe quantomeno curioso se da un giorno all’altro una tecnologia ampiamente apprezzata da autorità e pubblico europei fosse improvvisamente boicottata. Però il rischio che un’ondata di emotività travolga il diesel, almeno temporaneamente, esiste. Ed è altrettanto vero che i motori a gasolio, per rispettare i limiti su particolato e NOx, stanno diventando sempre più cari, infarciti come sono di sistemi di post-trattamento dei gas di scarico. Se l’Europa, sull’onda dello scandalo VW, cambiasse obiettivo e al posto di combattere come massimo nemico il gas serra CO2 si concentrasse sugli inquinanti, potrebbe scombinare gli equilibri attuali. In quel caso, chi ci guadagnerebbe?
Gli analisti di Evercore ISI, secondo quanto riporta il New York Times, annunciano uno “spostamento di lungo termine dai motori diesel a quelli a benzina”. I motori a benzina, infatti, stanno diventando sempre più piccoli ed efficienti. La nuova tendenza è quella dei turbo a tre cilindri, che accomuna la BMW, la Opel, la Ford, i francesi di PSA Peugeot-Citroën e Renault. I tre cilindri non sono più “roba da citycar”, ma equipaggiano anche compatte e monovolume e promettono consumi molti contenuti: la Focus 1.0 EcoBoost da 100 CV, per esempio, è omologata (pur con tutti i limiti del ciclo di misura) per consumare 4,6 litri ogni 100 km, la nuova Opel Astra 1.0 T SGE da 105 CV, 4,4 litri/100 km.
L’ipotetico ridimensionamento delle vendite dei diesel dovrebbe accelerare anche la crescita dei modelli ibridi, che potrebbero essere una buona alternativa per chi ricerca bassi consumi: nel 2012 erano ibride lo 0,5% delle auto nuove immatricolate in Italia, nel 2013 l’1,2%, nel 2014 l’1,6%. L’offerta nel settore non è più, come un tempo, composta solo da un paio di modelli per intenditori, fra cui la più nota è la Toyota Prius, ma si estende dalle citycar (come la Yaris) alle Suv (la Rav4, le Lexus RX e NX). I più forti in questa nicchia di mercato sono i giapponesi della Toyota, affiancati dai costruttori di lusso per quanto riguarda i modelli ibridi plug-in d’alta gamma, la cui complessità tecnologica è giustificata da omologazioni molto favorevoli in termini di CO2.
Poi ci sono sempre le auto a gas, metano o Gpl, che in Italia continuano a essere un fenomeno molto rilevante: nel 2014, rappresentavano rispettivamente il 5,3 e il 9,1% delle immatricolazioni. A livello europeo, il gas è meno popolare, ma negli ultimi anni il complesso di quello che l’associazione dei costruttori Acea chiama “auto a combustibili alternativi” (ossia a metano, Gpl, elettriche e ibride plug-in) sta crescendo lentamente ma con costanza: nel 2011 rappresentava l’1,4% del nuovo, nel 2014 il 2,7 (il 5% se si includono anche le ibride non plug-in). L’eventuale crisi del gasolio non potrebbe far altro che accentuare un trend già avviato.