La manifestazione organizzata il 28 settembre ad Hong Kong per commemorare le proteste di “Occupy Central” dello scorso anno – quando il quartiere dei palazzi governativi era stato occupato per 79 lunghi giorni – ha rinnovato l’impegno politico per un vero suffragio universale. Secondo la polizia i manifestanti erano poco più di 900 contro un centinaio di persone che si erano riunite per protestare contro la commemorazione. Il punto è che nel 2017 a Hong Kong potrebbero svolgersi le prime elezioni a suffragio universale della Cina ma Pechino, che rivendica la giurisdizione sull’ex colonia britannica vuole avere l’ultima parola sui candidati eleggibili.
L’appuntamento era nel posto, nel giorno e nell’ora in cui la polizia sparò i lacrimogeni sulla folla. La reazione ebbe un grande clamore mediatico e, invece di disperdere le masse, diede nuova forza e appoggio popolare al movimento che decise di rimanere a presidiare le strade. E che da quel momento ebbe anche un nome: Umbrella Movement. Dagli ombrelli che i manifestanti aprirono per difendersi dai gas lacrimogeni. Furono soprattutto gli studenti a trascinare in piazza centinaia di migliaia di persone, sottraendolo di fatto ai padri fondatori – Benny Tai, Chan Kin-man e il reverendo Chu Yiu-ming – espressione di un ceto medio maturo e moderato in cui non si riconoscevano più.
Il movimento rivelava un carattere soprattutto generazionale: a Hong Kong, come in molte altre parti del mondo “sviluppato”, sono i giovani a soffrire maggiormente per i prezzi immobiliari inaccessibili, un mondo del lavoro sempre più chiuso e i salari inadeguati al costo della vita. Una più ampia democrazia elettorale poteva essere lo strumento per far sentire la propria voce contro un blocco sociale di grandi immobiliaristi e interessi finanziari che di fatto governano Hong Kong con il beneplacito di Pechino.
A un anno di distanza si ricorda il punto politico: l’articolo 45 della Basic Law, la Costituzione di Hong Kong, stabilisce che il capo di Stato – che paradossalmente si chiama amministratore delegato e attualmente è nominato da un comitato di 1200 individui espressione a loro volta delle lobby economiche della città – deve essere scelto “tramite suffragio universale”. Questo sarebbe dovuto avvenire per la prima volta nella prossima tornata elettorale. Ovvero nel 2017. Ma a luglio 2014, attraverso un libro bianco emanato dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, Pechino ha escluso che si potrà candidare chiunque, ponendo l’accento sul fatto che “solo i candidati che amano la Cina saranno eleggibili”.
A sei mesi dalle proteste che avevano mobilizzato l’ex colonia britannica, il 18 giugno di quest’anno, il Consiglio legislativo di Hong Kong ha bocciato la proposta di riforma elettorale che aveva diviso l’opinione pubblica e innescato il movimento degli ombrelli lo scorso autunno. Una vittoria di Pirro. Il tempo stringe e oggi è quasi certo che le elezioni del 2017 avverranno come sono avvenute negli ultimi anni: suffragio ristretto e riservato alle lobby dell’economia e della finanza.
Coloro che l’anno scorso si sono distinti come i leader della protesta lunedì 28 settembre si sono trovati d’accordo su un punto. Il 2017 è troppo vicino e Hong Kong subisce ancora una fase di stallo politico che non vede né vinti né vincitori. Così hanno spostato l’obiettivo al 2047. Per questa data è prevista la fine di “un paese, due sistemi”, lo status speciale contrattato dai britannici per l’ex colonia quando nel 1997 furono costretti a riconsegnarla alla Repubblica popolare. Prima di allora i sette milioni di cittadini hongkonghesi dovranno decidere se adottare in blocco il sistema politico cinese o lottare per la propria indipendenza. Perché la Cina, dal canto suo, non sembra disposta a cedere di una virgola.
di Cecilia Attanasio Ghezzi