Lasciata la via Appia a Maddaloni, la statale 262 si insinua in una valle stretta tra colline in parte verdi e tondeggianti, in parte sformate e bianche per esser state sezionate dalle cave. Dopo appena un paio di chilometri, dietro una curva, in fondo alla strada appare una fila di arcate alte e snelle. La strada scende e un secondo ordine di archi appare al disotto del precedente e, scendendo ancora, un terzo. In pochi attimi i Ponti della Valle si svelano in tutta la loro dimensione gigantesca.
Avvicinandosi da nord, lasciatasi alle spalle Sant’Agata de’ Goti, piccolo centro di eccezionale rilevanza insediativa, la strada è invece pianeggiante, i Ponti si presentano in tutta la loro estensione, come un grande schermo traforato, un chiaro limite, una porta.
I Ponti, disegnati da Luigi Vanvitelli, sono parte del monumentale Acquedotto Carolino, dal 1997 nel patrimonio Unesco, costruito in pochi anni nella seconda metà del Settecento per alimentare i complessi borbonici della Reggia di Caserta con il suo Parco e le Seterie di San Leucio, e in seguito le innumerevoli attività produttive nate lungo il suo corso.
A muoversi lungo un corridoio longitudinale, largo circa quattro metri e privo di parapetti, si ha un’esperienza unica dello spazio architettonico: sotto un’arcata altissima, che si sviluppa nello stesso senso del cammino, lo sguardo si apre allo spettacolo dei paesaggi contrapposti della piana casertana e della valle dell’Isclero; subito dopo si deve avanzare attraverso una volta a botte bassa e stretta, scavata dentro il pilone. E così, continuamente tra dilatazioni in verticale e in orizzontale verso lo spazio geografico, sotto le arcate, e fortissime contrazioni dello spazio sotto i passaggi nei piloni, ritmicamente per decine di volte, fino a raggiungere il versante opposto a quello di partenza.
Percorrere la strada di sommità – sotto la cui pavimentazione originale in pietra lavica ancora oggi scorre l’acqua canalizzata verso il Parco della Reggia, e fino a qualche decennio fa illuminata da due file di lampioni che nel buio della notte disegnavano una metafisica linea di punti luminosi dell’aria – è un’esperienza completamente diversa: lungo gli oltre cinquecento metri di cammino, mentre si prova la sensazione di star sospesi su una fettuccia tra i due monti, si percepisce completamente la natura diversa dei due ambiti geografici che i Ponti, in quanto porta disposta su una soglia, separano, pur di fatto unendoli.
Se invece ci si avvicina al grande manufatto si noterà il progressivo assottigliamento, dal primo al terzo ordine, dello spessore delle arcate che insieme al ritmo dei piloni, scandito dalla presenza di contrafforti alternati a semplici paraste, aumentano la plasticità del manufatto, già notevole grazie allo spettacolare gioco di ripetizioni di pieni e vuoti delle quasi cento arcate. L’accorta rastrematura, stando ai piedi dei Ponti e guardando verso l’alto, produce un’accelerazione prospettica che fa apparire il manufatto ben più alto di quanto realmente sia.
Un vecchio numero della rivista Casabella, il 505 del 1984, presentava dei progetti di riuso per San Leucio e i Ponti della Valle di Léon Krier, Richard Plunz, Franco Purini, Alvaro Siza Vieira e Francesco Venezia.