L’onda lunga vendoliana si sente ancora sulla sfera culturale della Puglia felix. Teatralmente parlando il lungo tacco d’Italia continua a stupire se consideriamo il Kismet e le Fibre Parallele di Bari, la vena internazionale dei Koreja di Lecce, il drammaturgo Francesco Niccolini e la compagnia Thalassia di Brindisi, il Crest con il suo festival “Start Up” di Taranto. Scoperta e novità questo piccolo “Room” della Compagnia degli Apocrifi di Manfredonia, alle porte del Gargano. Doveva andare in scena soltanto per tre repliche agostane, siamo ad oltre venti, la lista d’attesa è corposa, e il passaparola non accenna ad affievolirsi. Un lavoro intimo, vicino, sofferto, sudato, da “La signorina Else” di Schnitzler, duro e corrosivo, che tocca il tema della Famiglia, tra senso della responsabilità collettiva e salvezza personale.
Siamo al quinto piano, sul tetto del seminario Santa Chiara di fronte al Duomo. Ottantanove gradini per arrivare in cima. Da qui si vede la punta del campanile eretto dal Cardinale Orsini a metà del ‘600. Anche se sotto nelle vie di lastricato consunto e liscio il caldo è umido come un abbraccio non richiesto, sopra soffia un vento fresco che arriva dal mare e scompiglia, dal Porto nuovo con le sue tende bianche, come dai nastri trasportatori “dorati” che fece installare Cirino Pomicino e poi, di fatto, mai utilizzati. Manfredonia città di Lucio Dalla, strano a dirsi; qui il cantautore bolognese, cittadino onorario, passava le estati (esaustivo il volume “Ti racconto Lucio Dalla” di Angelo Riccardi, nel frattempo divenuto sindaco della città), e l’immagine del vecchio mercato è stampata sulla copertina del vinile 4.3.1943, e al quale è intitolato il teatro cittadino diretto proprio dagli Apocrifi.
Nati quindici anni fa, all’anagrafe Stefania Marrone, Cosimo Severo e Fabio Trimigno, quest’anno hanno visto il pur minimo contributo ministeriale (16.000 euro l’anno) azzerarsi. Sul tetto “che scotta” siamo in una ventina per replica, tutti attaccati a questo letto, in questa stanza ricreata dove monologa la giovane Else (fresca Miriam Fieno che ci recita addosso senza remore con l’energia di una matrona napoletana, sfrontata e fragile, in alternanza tra lievità, dolcezza e forza con la quale vuole sovvertire la sua sorte, segnata, alla quale fino all’ultimo non si arrende) argomenta con se stessa, e con gli altri personaggi che sono presenti come fogli appesi al muro, più che altro voci e ricordi nella propria mente. Siamo voyeuristi di un dramma, anche se trattato, soprattutto nella prima parte, con la leggerezza dell’adolescenza, entriamo curiosi nella sua camera, senza chiedere permesso ascoltiamo i suoi pensieri, il suo subconscio che riesce a reagire soltanto a parole.
Else parola inglese che tradotta significa “altrimenti”. Ma qui la nostra adolescente non ha avuto possibilità di scelta, nessun altrimenti per lei. Tempi, i nostri, di usurai, precariato e compraoro; la sua famiglia ha un oneroso debito e dovrà saldarlo entro pochi giorni; l’unica soluzione è mettere la giovane figlia, l’ultimo bene rimasto, tra le braccia di un “amico di famiglia”, alla Sorrentino, che potrà saldare l’ammanco. Una sorta di “Giardino dei ciliegi”, dove all’immobilismo cechoviano viene sostituito il cinismo affaristico che calpesta i legami di sangue, la miseria dei sentimenti che salva momentaneamente ma fa affondare tutti nel fango dell’assenza di dignità.
Scene da segnalare: Else-Fieno (un mix tra Giulietta, Ofelia e Alcesti) con la testa nella luce fredda e sbiadita del piccolo frigorifero, la doccia, nuda in penombra, proprio sotto al campanile, il gioco delicato ed erotico dei bicchieri sul letto, modulando le voci dei vari personaggi.
Else libera il suo cognome dall’onta del fallimento, accollandosi il senso di schifo per quello a cui è stata costretta; da una parte si sente spinta ad un gesto altruistico, dall’altra è “venduta” dai suoi carnefici con la faccia implorante dei parenti più prossimi. Qui finisce la sua innocenza, i suoi giochi di bambina, lasciata sola nella vergogna, infilandosi in una no man’s land, senza ritorno.
Manfredonia