giornali del futuroNell’era del web 2.0 e dei social media, di Periscope e delle app, le notizie sono ancora un business? C’è da tempo chi sostiene che nemmeno i giornali cartacei abbiano mai vissuto di quelle. Lo statunitense Hal Varian, ad esempio, chief economist di Google: “Tradizionalmente i giornali guadagnavano grazie alla pubblicità” ha detto due anni fa ritirando il premio ‘E’ giornalismo’. “Le ‘notizie pure – continuò – hanno un elevato valore sociale per un lettore interessato ma un valore commerciale molto basso, a causa della difficoltà di abbinarle a pubblicità contestualmente rilevanti”. Da circa tre settimane, in cima alle classifiche della categoria giornalismo della piattaforma italiana di Amazon c’è un saggio che si occupa proprio di questo, dei giornali alle prese con la sostenibilità di business: “I giornali del futuro, il futuro dei giornali”, di Pier Luca Santoro, casa editrice Informant.

La prima parte del testo di Santoro è dedicata allo stato di salute dell’editoria italiana e sembra confermare pienamente la provocazione di Varian: i quotidiani italiani hanno basato il loro modello di business sul binomio vendita/pubblicità, con una netta prevalenza della seconda componente nel computo complessivi dei ricavi. L’avvento di internet ha messo poi definitivamente in crisi il sistema dei media classici, causando negli ultimi sei anni una perdita di introiti per oltre un miliardo di euro. Contestualmente i ricavi provenienti dalla componente digitale dell’editoria sono cresciuti ma non in misura tale da sopperire alle perdite di quella tradizionale, e la ragione è strutturale. Ad attrarre più utenti sono infatti le piattaforme di aggregazione, di ricerca, di condivisione; sono i social, dove gli iscritti vengono a contatto con le news in modo quasi casuale e l’identità del produttore originario della notizia sembra evaporare nel magma del feed (tre mesi fa ne accennavamo qui).

Tutt’oggi, rileva Santoro, “la sussistenza degli editori continua a dipendere in maniera preponderante dall’entità dei ricavi conseguiti grazie alle testate cartacee”. Ma le vendite, come sappiamo, calano a vista d’occhio. Quanto alla pubblicità, non gode di buona salute: né sui media analogici né on-line, dove il tempo di permanenza di un utente su una pagina è sempre più esiguo. Come trovare un punto di equilibrio sostenibile?  La prima risposta messa in campo dall’editoria italiana è stata il taglio dei costi. Il quale sta causando una dilagante precarizzazione del lavoro giornalistico, perfettamente simbolizzata dall’accordo sull’“equo compenso”, poi bocciato dal Tar. E in ogni caso quella del esclusivo contenimento delle spese è una strada che, ad oggi, non sembra portare ad altro che a un decadimento del prodotto.

Vi è infatti un nodo sistemico ben più profondo, rileva l’autore citando il Cluetrain Manifesto: nella Rete, “i mercati sono conversazioni” e i media per primi hanno una nuova mission, costituita dal creare relazioni, coinvolgere le persone. Per vincere la sfida occorrerebbero in primis qualità, tempismo e rilevanza dei contenuti e poi la capacità di interagire con i lettori.I contenuti sono lo strumento necessario per generare valore, ma il valore nasce dalle interazioni che si creano tra i contenuti e tra le persone” sostiene Santoro. “Stabilire una relazione privilegiata con i lettori, con le persone, è la strada maestra per uscire dal tunnel, non ho dubbi”. E con lo scorrere delle pagine emerge come questa impostazione non conduca poi a la soluzione ma a varie possibilità, a seconda delle specifica realtà giornalistica.

La soluzione apparentemente più naturale è l’introdurre un paywall. Ma nell’era dell’abbondanza di siti di news ad accesso gratuito, chi può permettersi un azzardo del genere? Pochi. Secondo l’autore solo chi ha un mercato ampio e contenuti ad alta specializzazione: case history positive sono il Financial Times e, oltreoceano, il New York Times. Nel testo, ricchissimo di interviste a giornalisti e nuovi professionisti del panorama digitale, sono dunque passati in rassegna anche altri modelli, molto più promettenti secondo l’autore. Il crowdfunding ad esempio, e soprattutto i sempre più collaudati membership e micropagamenti. I quali, sottolinea Santoro, hanno in particolare il merito di vendere al lettore solo ciò che realmente gli interessa, chiudendo definitivamente il capitolo del giornale quale prodotto unico e indivisibile.

Oltre ai casi noti del Guardian e del Wall Street Journal, riguardo alla membership viene citato l’esempio del Texas Tribune, caso interessante di testata in attivo in cui la lettura delle notizie viene mantenuta gratuita ma esistono diversi livelli di sottoscrizione (dalla modesta somma di 10 dollari sino a quella di 5000) che danno diritto a una crescente serie di benefit. E’ l’idea del club, delle relazioni di valore fra pubblico e testata. Per quanto riguarda invece i micropagamenti c’è l’esempio di Blendle, la cui filosofia, chiarisce in un intervista Duco van Lanschot, Head of International della testata, è quella di Spotify: a fronte di una quota d’iscrizione minima l’utente ha la percezione di vantaggi reali, tagliati su misura.

Agli editori Santoro suggerisce quindi di intessere con i lettori un nuovo rapporto fiduciario, costruito però completamente in ambiente digitale. Dunque in un luogo dove utenti e redazione interagiscono di continuo su fonti, storie, eventuali errori, richieste di rettifiche, secondo il modello del lettore 2.0. Si tratta un cambiamento culturale prima ancora che di business: “i giornali”, sostiene l’autore nelle righe finali, “continuano ad essere online ma non a far parte della Rete. Finché questo passaggio culturale non sarà pienamente compiuto, continueranno le difficoltà”.

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