Adesso che l’estate sta finendo, è forse il momento giusto per parlare di un problema ricorrente e, almeno per quanto risulta dalle cronache giudiziarie, sempre più sentito. Mi riferisco ai rumori notturni provocati, specie nelle zone della movida, dai tanti locali pubblici con musica ad alto volume, canti, urli e schiamazzi degli avventori.
Intendiamoci, mi sembra evidente che d’estate, in queste zone, debba esserci una certa tolleranza e, proprio per questo, la legge assegna ai Comuni il compito di regolamentare gli orari di queste attività e, nel contempo, fissa alcuni limiti massimi di rumore, in decibel. Anche se poi, nella pratica, i controlli sono molto scarsi. Eppure, ogni estate le denunzie per rumori molesti notturni si moltiplicano e, a volte, sfociano in litigi anche violenti.
Cerchiamo allora adesso, a bocce ferme, di capire quali sono i confini tra il lecito e l’illecito delineati dalle leggi e dalla giurisprudenza più recente.
I limiti massimi da non superare sono fissati dalla legge 26 ottobre 1995, n. 447 con sanzione amministrativa pecuniaria fino a 5000 euro in caso di inosservanza. Ne consegue che ” l’attività di un bar regolarmente autorizzato dall’autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all’uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un ‘mestiere rumoroso’, in quanto l’uso di tali strumenti è strettamente connesso e necessario all’esercizio dell’attività autorizzata, con la conseguenza che il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma secondo, della legge 26 ottobre 1995, n. 447″ (Cassazione, sez. 3, n. 34920 del 18 agosto 2015).
Ma, più in generale, l’art. 659, primo comma, del codice penale punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero, abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche …. disturba le occupazioni o il riposo delle persone….” . E, quindi, se, oltre al superamento dei limiti, si provoca disturbo alle persone che abitano nelle vicinanze, può scattare, appunto, anche la denunzia penale per il reato di cui all’art. 659, comma 1. Non sempre, però. Infatti, secondo la Cassazione, ciò avviene solo se vi è la “prova dell’attitudine dei rumori provocati a recare disturbo a una pluralità indeterminata di persone”; e non se arrechino “molestia solo al circoscritto numero degli occupanti degli appartamenti contigui”. Insomma, bisogna che si vada oltre la “normale tollerabilità” e che sia messa in pericolo la “pubblica tranquillità” (Cass. sez. 1, n. 17670/2002). Di modo che,“integra il reato previsto dall’art. 659, comma primo, codice penale, l’esercizio di una discoteca i cui rumori, in ora notturna, provocano disturbo al riposo delle persone abitanti nell’edificio in cui è ubicato il locale, se il fastidio non è limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa, in quanto la propagazione delle emissioni sonore estesa all’intero fabbricato è sintomatica di una diffusa attitudine offensiva e della idoneità a turbare la pubblica quiete”.(Cass., sez. 3, n. 23529/2014).
Ma, a questo punto, sorge un problema: se il superamento dei limiti, infatti, è facilmente accertabile tramite un fonometro, come si prova il disturbo alla quiete pubblica? La Cassazione non ha dubbi: “Le sole dichiarazioni rese dai denuncianti sono sufficienti a sostenere l’accusa in assenza di ulteriori indagini di riscontro, anche di natura fonometrica in ordine al reato di cui all’art. 659 cod. pen. perché la sussistenza del reato in questione può essere dimostrata con qualunque mezzo di prova….” (Cass. sez. 3, n. 37097/ 2015).
E pertanto, si è ritenuto sussistere il reato “sulla base delle dichiarazioni testimoniali di soggetti i quali avevano riferito che durante le ore notturne non riuscivano a dormire a cagione delle emissioni sonore provenienti da una discoteca” (Cass., sez. 1, n. 201195/1995)
Resta, infine, da capire quando sia configurabile la responsabilità penale del gestore del locale. Se da un lato, infatti, in linea di massima “la qualità di titolare della gestione dell’esercizio pubblico comporta l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza”, dall’altro, tuttavia, se il disturbo alla quiete pubblica avviene all’esterno del locale “per poter configurare la responsabilità del gestore è necessario provare che egli non abbia esercitato il potere di controllo e che a tale omissione sia riconducibile la verificazione dell’evento” (Cass., sez. 3, n. 12967/2015). Anche se, ovviamente, resta fermo il potere-dovere del sindaco di intervenire con appositi provvedimenti, quali, ad esempio, la limitazione dell’orario di chiusura del locale stesso e la predisposizione di controlli notturni nella zona. Peraltro, recentemente il Tar del Piemonte (sez. 2, n. 1191/2015) ha affermato che non vale a escludere la responsabilità del gestore sostenere che la zona è di per sé zona “votata alla movida”.
Questo è, in sintesi, il quadro giuridico. Resta solo da dire che, in un paese civile, le regole della tolleranza, della civile convivenza e del rispetto per gli altri dovrebbero essere regole acquisite senza bisogno della minaccia di sanzioni penali. Ma quanto è civile oggi questo nostro paese?