Ieri mi trovavo a Corniglia, la terza delle Cinque Terre, seduta davanti a un’osteria che sforna piatti della tradizione ligure cucinati divinamente, presente anche nel circuito Slow Food. E’ uno di quei locali dall’atmosfera intima e personale: all’interno un ambiente piccolo, in sasso, il menù scritto a mano su una lavagna, all’esterno costruzioni di conchiglie e rami, piantine di basilico e falangio.
Una giovane coppia di americani si ferma davanti all’ingresso. Guardano una foto al cellulare. Tornano a osservare il locale.
“No. Questo è il numero sei”. Dice lei. “Noi non vogliamo il numero sei. Noi vogliamo il numero uno”.
E si allontanano per cercare il primo della lista. Che sia poi anche il più buono, è tutta un’altra storia.
Li ho guardati andarsene via, col naso incollato al telefonino, e ho provato tristezza nel constatare la mancanza di spirito d’avventura o ingegno di questi giovani in vacanza, lontani da casa, liberi eppur incapaci di scegliere coi propri occhi un posto dove pranzare. Quasi come se il proprio istinto non fosse sufficiente.
Dei turisti che porto in giro, sono pochi quelli a non usare portali o community per programmare le proprie vacanze, alcuni non si muovono “se prima non hanno consultato l’oracolo Tripadvisor”.
Anche per piccoli spostamenti, gente che prima avrebbe saputo orientarsi nella giungla amazzonica leggendo i punti cardinali sulla corteccia degli alberi, ora non fa manco più pipì senza consultare il proprio Gps. Troppo comodo, rassicurante, infallibile. Pazienza se la voce argentina del TomTom ci comunica che siamo arrivati a destinazione quando invece siamo sotto un cavalcavia tra i fossi e la nebbia della Val Brembana.
Non siamo davvero più capaci di fidarci del nostro fiuto?
Quand’è che abbiamo perso la voglia dell’incognito?
In qualche modo trovare la pappa pronta, assottigliare al minimo la possibilità di sorprese (brutte ma anche belle), conoscere esattamente cosa troveremo senza gustarne lo stupore, è diventato un rituale di cui quasi nessuno riesce a fare a meno.
Si conosce e si vede già tutto anche dei viaggi degli altri, che non tramandano più attraverso il racconto orale le proprie ferie, ma estraggono lesti dal taschino il dispositivo di turno e si lanciano convulsi nello scorrimento – in ordine – di: bungalow bordo piscina, fritto misto al ristorante, tramonto in spiaggia, selfie sfumato dentro la vasca idromassaggio.
E’ vero, certi racconti di viaggio facevano sembrare la ‘Corazzata Potëmkin’ un film per ragazzi a confronto. Ma quando a fine serata, dopo svariate bottiglie di vino, avevi ascoltato quanto sporche fossero le strade a Calcutta, della nausea e i mal di testa sui sentieri del Perù, del tramonto struggente in cima a Santorini o della bellezza nascosta di Ronda in Andalusia, ti eri fatto talmente tanti film che era come se in viaggio ci fossi stato anche tu, magari impacchettato come lo gnomo di Amélie. E i luoghi visitati solamente nella fantasia, creati dal puzzle di parole altrui, diventavano posti magici ancorati nella memoria, destinazioni da sognare per il futuro.
I miei occhi guardano centinaia di foto ma scordo dopo poco tutto quello che ho visto. Non riesco a trattenere, ne girano troppe ogni giorno e quelle che non sono accompagnate da una storia, finiscono nel dimenticatoio, come un file che non riesci a trovare perché non gli hai dato un nome.
Nella perdita del racconto, si perde anche la testimonianza diretta, e il consiglio da esperto lo si cerca più volentieri nei ‘certificati di eccellenza‘, piuttosto che da un locale o da chi ci è stato. Non c’entra l’età è che siamo diventati troppo pigri per parlare, troppo superficiali per pensare. Diranno i posteri che correva l’anno duemilaquindici e la gente amava viaggiare così.