Ivan Graziani - Illustrazione di Francesco Colafella
Illustrazione di Francesco Colafella

Ivan Graziani, il primo cantautore rock italiano, il prossimo martedì 6 ottobre avrebbe compiuto settant’anni. È tutto pronto a Teramo, sua città natale, dove martedì stesso ci sarà una festa in piazza con molti ospiti, dalle 17 in poi, per omaggiarlo. Chi è stato Ivan? Cantautore di culto? Rocker? Per una larga fetta di persone appassionate alla canzone di qualità, esigenti anche sotto il punto di vista musicale, la figura di Ivan è qualcosa di prezioso e di… unico. Questa forse è la sua più grande dote, l’unicità. È riuscito a coniugare in Italia il linguaggio del rock, quello suonato, quello virtuoso, con la canzone d’autore: quella in cui il testo conta e si sta a sentire.

Io lo voglio ricordare con due scritti, estrapolati da un mio saggio più lungo in cui parlo di questa sua esclusività. Si intitola ‘Ivan Graziani. Il primo Cantautore Rock’.
Mettiamoci comodi, e partiamo da una domanda: cosa cambiano, della canzone italiana, i primi cantautori tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta? Cambiano tutto: sia le parole, sia la musica. Paradossalmente, però, il rock‘n’roll non è molto gettonato fra loro. Meglio la canzone francese, che porta anche un alone filosofeggiante di esistenzialismo, perfetto per l’immagine maledetta e corrucciata del cantautore intellettuale. Il rock ‘n’ roll è roba per Celentano e Little Tony (che proprio a Sanremo cantano 24.000 baci, nel 1961), c’è il rischio di apparire disimpegnati. Tuttalpiù, se proprio ci si vuole unire a una certa protesta sociale per non sembrare distanti dai problemi del mondo, di americano si può fare il folk, meglio ancora il beat; d’altronde lo fa anche Dylan.

Questo è il mondo dei cantautori: accanto a una vera e indiscutibile rivoluzione della canzone italiana, c’è anche molta moda, molto spirito di omologazione. E Ivan? Si salva. Ivan Graziani nasce nel 1945 e, fino a quando non andrà a studiare a Urbino nel 1965, tutte queste cose le vive dalla provincia, da Teramo o – nel periodo delle superiori – da Ascoli; e senza internet. La vita di provincia non offre ovviamente le occasioni che potrebbero capitare nelle grandi città: Milano su tutte. Ma, tra gli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, da una cosa ti mette in salvo: il rischio di omologazione, che con la musica è esponenziale.

Ivan a quindici anni il suo apprendistato se lo costruisce da solo, di sana pianta. Cosa ascolta in quel periodo lo dirà più avanti nelle interviste: gli Shadows e la colonna sonora de I magnifici sette; ma anche sigle dei telefilm di Bonanza, i Champs di Too be much tequila, Duane Eddy e poi il blues di B. B. King, ma tutto rigorosamente sperimentato direttamente, facendo sì che quella musica passasse per i suoi polpastrelli e venisse fissata sulla chitarra. Dirà più tardi: “Il fascino di quelle prime esperienze me le sento ancora addosso. Sta nel piacere di suonare determinate cose, nella ricerca sulla mia chitarra di sonorità simili” (M. Bonanno, Ivan Graziani. Il chitarrista, Bastogi, Foggia, 2005, p. 52).

Sin da adolescente, suona ovunque: porta persino serenate alle zingare, con la chitarra, secondo un’usanza nei matrimoni, fino a Pescara. Poi a casa di un suo compagno di scuola, Gianni Dale: Ivan suona ovviamente la chitarra, Gianni il piano. Ivan, che veniva dagli ascolti e dalle sperimentazioni che abbiamo appena visto, nei primi anni Sessanta non strimpella Tenco o Paoli. Si diverte a fungere da chitarra da accompagnamento e solista in un sol colpo. Gira molto, e non solo in Abruzzo, per suonare nell’orchestra teramana del padre di Gianni, Nino Dale, assoldato come chitarrista virtuoso, fino in Tunisia. Quando va in giro con i “Nino Dale and his modernist’s” suona di tutto, da canzoni per far ballare in pista, a Renato Carosone.

Ma già da giovanissimo comincia a scrivere canzoni sue. Lui vuole fare il cantautore, non il chitarrista di un gruppo. E poi ascolta i Beatles, e li suona. E tanto. Ora: non ci sarebbe proprio niente di strano nel suonare i Beatles, visto che negli anni Sessanta non si contano i gruppi beat, loro epigoni, nati in Italia. Ma Ivan vuole fare il cantautore, ha l’urgenza di dire le cose attraverso proprie canzoni. Con testi nuovi, con grazia e lievità, più colloquiali. Esattamente come Paoli, Lauzi e tutti i cantautori degli anni Sessanta. C’è però una differenza essenziale rispetto a loro: Ivan vuole fare il cantautore partendo da virtuoso dello strumento, senza avvilire il rock ‘n’ roll (anzi!), senza sentirsi in dovere di parlare di politica (semmai di sociale), senza voler apparire intellettuale, esistenzialista e polveroso. Lo farà in maniera naturale, attraverso quella proficua strada che porterà il rock ‘n’ roll fino ad essere anche altro, con caratteristiche più coscientemente artistiche, di ruvidezza e di rottura, che si chiamerà semplicemente ‘rock’.

Nel periodo del suo primo vero gruppo, gli “Anonima Sound”, Ivan ha già in mente cosa vuole fare. Ce lo dice Velio Gualazzi, papà di Rafael e batterista del gruppo, ricordando le parole dello stesso Ivan: “Ho in mente un genere nuovo. […] Vorrei fare pezzi molto melodici che poi sfociano all’improvviso in tempi composti” (L. Arabia, Ivan Graziani. Viaggi e intemperie, Minerva, Bologna, 2011, p. 38). Era il 1969 e Ivan stava prefigurando il progressive all’italiana.

Ricapitoliamo: Ivan veniva dai Beatles, forse non ascoltava i francesi e gli interessavano poco i contenuti di Dylan, quindi per lui il mondo artistico dei cantautori era sostanzialmente lontano; non l’intenzione. Questa fu la sua forza, perché gli permise di perfezionare la potenza del groove, quella immediatezza comunicativa che deriva dal suono, prima che dalla parola. Da qui nasce la sua caratteristica principale: l’unicità. L’apprendistato di Ivan, insomma, è naturale, parte dalla sua chitarra e non da qualsiasi tipo di moda. Prende solo il buono dal fenomeno dei cantautori e dalla canzone d’autore. La provincia lo salva, e lui questo concetto lo canterà in molte canzoni, sottolineandone anche i rischi a cui può portare: il farsi risucchiare dall’indolenza, dalle piccole meschinità, dai bigottismi; o semplicemente il fatto di subirli. Oppure, una volta in città, il sentirsi inadeguati nei comportamenti, un’eccessiva timidezza, il disfattismo e la sciagura di non credere nei propri mezzi.

Comunque, questo star lontano da ogni tipo di omologazione sarà la sua salvezza artistica e anche una cifra importante della sua poetica. Ma sarà anche una cosa che pagherà, perché il mondo del pop gira proprio in senso opposto: lì essere riconoscibili vuol dire aver vita facile per poter vendere agevolmente al pubblico questa riconoscibilità, e così Ivan Graziani risulterà sempre irregolare, mai un prodotto in serie.

Una delle omologazioni principali in cui Ivan non rimarrà mai imbrigliato sarà quella della pretesa politicizzazione della canzone e dei cantautori impegnati, specialmente negli anni Settanta: la più grossa omologazione della storia della canzone italiana, nella quale tutti i più grandi – a volte loro malgrado – sono caduti e dalla quale solo in pochi hanno saputo tirarsi fuori.
Tutto questo lo ha portato nella seconda metà degli anni Settanta a scrivere album praticamente perfetti. Ma di questo parleremo il 6 ottobre.

[Continua]

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