Mi piacerebbe condividere con tutti l’incontro che ho avuto con Desmond Morris, quindi lo farò in questo prezioso spazio nel web. Perché è stato un formidabile privilegio (ha 87 anni, negli anni ’80 il suo libro “La Tribù del Calcio” è stata la bibbia per tanti di noi appassionati di calcio lontani dal mainstream), perché non è facile avvicinarlo, e perché rappresenta qualcosa di più simile ad un dio-pagano piuttosto che un essere umano in carne e ossa: lui è stato il primo e vero studioso – in maniera molto seria – del calcio inglese. Ma Desmond Morris è prima di tutto un sociologo, un divulgatore scientifico, un antropologo e un professore dell’Università di Oxford. E poi è una persona molto curiosa.
Questo è un libro che ti fa viaggiare soprattutto all’interno della testa di un appassionato di calcio, persone veraci, schiette, interessanti. E’ importante ricordare che la parola ‘fan’ è l’abbreviazione della parola ‘fanatico’, non c’è quindi da stupirsi per certi comportamenti. E bisogna anche ammettere che sono i fanatici, i fan, i sostenitori delle squadre di calcio che rendono grande il calcio. Quando una partita si gioca a porte chiuse – come talvolta accade, come punizione per un club – l’esperienza è tra le più inquietanti che si possano immaginare: come si può far giocare i calciatori e magari fargli segnare un gol in completo silenzio? E’ assurdo. Ogni squadra di calcio è come una tribù – e la tribù comprende tutta una società di membri devoti, dal presidente al raccattapalle. I giocatori stessi sono i cacciatori coraggiosi della tribù, le stelle lucenti che sono adorate e talvolta diffamate, ma non sono nulla, niente senza l’abbraccio rumoroso del resto della loro tribù – le migliaia di grida, i canti, i gesti appassionati che affollano lo stadio, e scandiscono il rito settimana dopo settimana.
Gabriella Greison riesce a catturare i suoni, luoghi e gli odori del gioco del calcio. Lei si aggira nei pressi di un club di Londra, dall’Arsenal al Chelsea, al West Ham, al Fulham, e il resto lo tira fuori la sua classe soltanto guardando, ascoltando, annusando. E’ proprio brava.
Andando indietro nel tempo, ai miei tempi, prima che la burocrazia ha deciso che ogni persona che va allo stadio debba avere un posto a sedere preciso e numerato e solo quello, le terrazze dove si guardavano le partite erano un mare di folla indescrivibile, bellissime, giovani ragazzi che si accalcavano uno su sull’altro solo per tifare. Le terrazze erano fatte solo di posti in piedi, era come avere tante scatole di sardine intorno ai campi verdi, e il pericolo che crollassero era dietro l’angolo. C’era spazio solo per applaudire nel modo più comune, con le mani che battono davanti al petto, niente di diverso o più estroso, non c’era spazio. Poi, gli applausi sono evoluti, pure quelli. Le mani venivano battute sopra la testa, con ritmi sempre diversi, speciali, sincronizzati fino alla frazione di secondo. Che spettacolo. I tifosi cantano, ruggiscono, gridano al gemellaggio, urlano all’unisono, così come i loro campioni, che rischiano ammaccature e lesioni ogni partita pur di portare a casa il trofeo simbolico della loro tribù. Mi ricordo, in particolare, di una volta: ero giovane, entrai in tribuna dopo il match, era ormai deserta, fino a pochi minuti prima i sostenitori erano lì che inneggiavano e osannavano i giocatori, e giuro, giuro veramente, sentivo ancora il loro testosterone presente nell’aria.
Ero così affascinato dall’impatto emotivo che una semplice partita di pallone portava sugli esseri umani adulti, che ho cominciato a fare un serissimo studio sul calcio. Ho frequentato le partite di tutto il mondo. A Bali ho visto una partita di calcio dove c’erano fiori esotici che adornavano i pali delle porte in campo, e i ragazzi che sostenevano i club erano seduti a gambe incrociate lungo le pareti di un antico tempio. A Hong King ho visto una partita giocata tra due squadre chiamate Racecourse United e FC Hopeless – e non sto inventando niente (i nomi delle squadre sono un gioco di parole, tradotte alla lettera ‘Ippodromo United’ e ‘Senza Speranza fc’, nda). Una volta ero in una piccola città industriale in Italia, e ho chiesto perché non erano stati mandati in trasferta i tifosi locali, mi è stato risposto – come se avrebbe dovuto essere ovvio – che se ci fossero andati ‘sarebbero morti’. Non è normale, capite? E’ tutto eccessivo nel calcio. E’ tutto estremo. Vita, morte, bisogni primari. Scalpi da portare a casa, per i giocatori e per i fan. Ovunque sono stato, ho trovato lo stesso fascino per questo semplice gioco, in cui si corre dietro a un pallone – un gioco con poche regole e che si gioca in modo identico su scala globale, la FIFA può vantarsi di sventolare più bandiere delle Nazioni Unite.
Tutti questi racconti avvenivano nel 1980, quando il calcio era nel suo momento di culmine più alto, la ferocia e i tumulti erano all’ordine del giorno. Le cose sono cambiate un po’ adesso, ma il sostegno appassionato per le squadre di calcio è ancora lì, immutabile, l’ho capito leggendo il libro della Greison, che ha avuto anche la capacità di portarmi indietro nel tempo, mi ha rapito, affascinato, sedotto, perché mi ha fatto rivivere tutto questo.
Nella mia vita sono stato anche direttore sportivo di una squadra di calcio, quindi ho sempre viaggiato con la squadra sul pullman, e visitato la maggior parte dei club di Londra che cita la Greison. Ricordo vividamente l’atmosfera speciale in ogni club, che viene raccontata nel libro. Questa amichevole maleducazione nei confronti del vicino, questa freddezza distaccata nei confronti di un altro, questa cortesia formale verso un terzo. In particolare, appena fuori Londra, a Watford, mi ricordo il presidente Elton John che mi portava sempre una tazza di tè al primo tempo. Aveva preso il virus del calcio, proprio come una malattia rara: era totalmente ossessionato dalla sua squadra, e preso per la sua promozione, rideva quando le terrazze del Watford gli scandivano cori sulle sue preferenze sessuali, aveva capito come prendere ogni cosa che girava intorno al calcio. Sapeva che non erano insulti, ma era soltanto un riconoscimento del suo ruolo importante all’interno della tribù del calcio del posto.
Tutti questi ricordi mi tornano alla mente impetuosi, appena leggo una pagina del libro di Gabriella Greison, e non può essere così anche a voi, ciascuno di voi che ha sfiorato il calcio inglese, e da cui si è fatto abbracciare. Lei conosce il suo calcio, si capisce subito, ha molta curiosità nei confronti del nostro, e scrive con un’immediatezza accattivante di qualcuno che sta pensando a voce alta. Il suo libro merita di essere letto da chiunque senta quella sensazione di forte formicolio appena qualcuno dice la parola ‘match-day’.
Ci sentiamo nei commenti qui sotto. E ci vediamo a Macerata da giovedì 8 ottobre per l’Overtime Festival, presenterò tanti eventi e modererò diversi incontri interessanti.