Sotto le stelle di Opatovac sono diventato un altro. Mi chiamo Aziz al Mazri, afghano, nato a Kabul il 1° gennaio 1973, non ho documenti e soprattutto: sono una pecora. L’esodo s’è trasformato in transumanza. Siamo migliaia di pecore rinchiuse in questo recinto, che è un carcere transitorio a tutti gli effetti, circondati da cani pastore che indossano la divisa antisommossa e chiariscono, sin dal primo istante, la legge che governa il campo: se resti nel gregge, se non crei problemi, ti sorridono; se esci dal gregge ti ringhiano addosso; se è proprio necessario – è successo ieri – ti menano. Entrare nel campo di Opatovac è l’unico modo per proseguire il viaggio con i profughi: da qui ci smistano, ci raccolgono all’uscita del centro, ci portano via dentro pullman organizzati dal governo croato, ma non sappiamo dove. Tra noi s’immagina: c’è chi dice Austria, chi Slovenia, chi Ungheria.
Entro nel campo alle 10 e mezza della sera, dopo una coda di 3 ore, prima in fila per uno, poi in fila per due. “Two lines. Two lines”, ripete il poliziotto croato. È gentile ed è stremato dalla stanchezza, come tutti i poliziotti croati che ho incontrato, ma quando il ragazzo accanto a me sfora la coda e si spinge più avanti, per farci capire che non scherza, lo rispedisce all’ultimo posto per ricominciare tutto. “Pet”, dice l’agente all’ingresso, che significa 5, così in cinque entriamo nel campo e sediamo su una panca. Sono all’ultima fila. Le panche sono 15. Siedo su ognuna di esse, le scalo una alla volta, finché non è il mio turno. “Pet”, dice l’ennesimo poliziotto, e in 5 possiamo finalmente entrare in una grande tenda militare. “Documenti?”, mi chiedono. “No document”, rispondo. Mi indirizza a un poliziotto che si occupa di quelli come me. “Da dove vieni?”. “Afghanistan”. “Nome?”. “Aziz al Mazri”. Ho scelto di essere afghano perché la mia lingua è il farsi e la probabilità di trovare un interprete è bassissima. Il poliziotto scrive il mio nome su un foglio che poi passa a un altro agente: lo appoggiano sotto il mio mento e mi fotografano. “Puoi andare”. Mi indirizzano verso sinistra, tra i campi e le tende militari, che son già piene. Cerco un bagno, come tutti in questo campo è pieno di merda che galleggia nell’urina fino all’orlo.
Torno nel mio sacco a pelo, tra falò accesi un po’ ovunque, mentre centinaia di persone sono già in coda, ammassate in fondo al viale: il loro vociare riecheggia per tutto il campo – “al jebab, al jebab”, “ragazzi, ragazzi”, è il richiamo che mi accompagna ormai da giorni.
Risveglio tra i falò
La litania dell’altoparlante: “Seduti e abbiate pazienza”
È il grido di chi chiama il suo gruppo per avvertirlo che è in vista il pullman o il treno per raggiungere la prossima a tappa. “Al jebab, al jebab”: le stesse parole che mi hanno svegliato questa mattina, alla stazione di Tovarnik, quando è iniziata la lunga giornata che mi ha portato qui.
“Al jebaaab, al jebaaaab!” è l’urlo che mi scuote alle 5 del mattino. Siamo migliaia, rincoglioniti dal freddo della notte, dalla stanchezza, dalla fame. Non c’è un posto dove potersi lavare: ho gli stessi vestiti da tre giorni. Infilo le scarpe, sono bagnate per l’umidità, ma scopro di avere un problema peggiore: ho perso il portafogli, per fortuna non il passaporto. Mi restano 15 euro che avevo lasciato in un’altra tasca. Dai binari il megafono della polizia ogni 10 minuti ripete la stessa litania: “Please sit down and wait your turn, it will be slowly, be patient”, “sedete e aspettate il vostro turno, si va lentamente, abbiate pazienza”. Sì, ma dove si va? Nessuno sa dirlo. Chiamo Gilles, il volontario belga che ho conosciuto la notte prima, sperando che mi porti in paese, per cercare un money transfert e farmi spedire un po’ di soldi. Mentre lo aspetto vedo i binari svuotarsi davanti ai miei occhi. Ma non è finita: Gilles mi spiega che altre mille persone stanno arrivando a Sid, confine serbo, per passare in Croazia. È un esodo senza fine. Ho appena deciso di trascorrere la giornata con Gilles e gli altri volontari – è quasi mezzogiorno – quando sento urlare il mio nome: è Misko, il tassista serbo che da Sid, ieri sera, mi ha accompagnato a Tovarnik. È venuto dalla Serbia a cercarmi, qui, per restituirmi il portafogli. Non ho parole. “Controlla – mi dice – c’è tutto?”. Lo abbraccio. Gilles mi chiama, dobbiamo andare. Con noi c’è Quitab, un ragazzo siriano arrivato in Germania 9 mesi fa: è stato torturato dal regime di Assad, gli hanno spezzato le dita, ma è riuscito a fuggire, ha chiesto asilo politico, ora ha un passaporto tedesco, è qui per dare assistenza. Poi c’è Sara, una ragazza algerina, bruna, piccola, sembra porti il sole ovunque vada. Indossa il hijab, quando ci mostra il suo doppio passaporto – algerino e ceco – copre la foto: non dobbiamo guardarle i capelli.
Quitab e Sara
Il caso e il colpo di fulmine tra i volontari di Sos konvoi
Quitab e Sara si conoscono oggi, per la prima volta, come molti ragazzi arrivati qui con Sos konvoi, che non è un’organizzazione, ma una meravigliosa manifestazione di anarchia. Non c’è un capo. Le decisioni sono condivise. Zero burocrazia. Ciascuno assume la propria responsabilità. Il cento per cento dei soldi raccolti sono utilizzati per i rifugiati.
Al varco con la Serbia, però, Quitab deve scendere: ha il passaporto valido, ma non ha il visto. Siamo nella no man’s land, duecento metri che non sono né Serbia né Croazia, il letto di un fiume di gente che straripa e s’ingrossa di ora in ora, attraversando la stradina che taglia in due un campo di granturco. Venticinque anni fa, prima che la Jugoslavia implodesse, questa frontiera non esisteva. I confini nascono nei posti più strani: qui è cresciuta attorno a un piccolo cimitero. E intorno al cimitero si accalcano in 3 mila. Molti sono cristiani, portano un rosario al collo, i bambini sono centinaia. Hanno fame, freddo, c’è chi ha bisogno di un medico. La Croce Rossa è dall’altro lato della strada, per raggiungerli bisogna passare su un tappeto umano, intorno non vedo nessuno dell’Unhcr, ma a un lato della strada trovo le loro coperte.
Sono settimane che in questo tratto di strada passano decine di migliaia di profughi: perché non ci sono medici? A che serve la Croce Rossa, qui, in questo modo? Che sta facendo – qui, in questo momento – l’Unhcr? I ragazzi di Sos konvoi nel frattempo realizzano il miracolo: decine di pentoloni di cibo caldo – riso con fagioli e mais – per migliaia di persone. Coinvolgono una decina di profughi, che ordinano le file, mediano e fanno da interpreti, per evitare che si creino risse al passaggio di una coperta o un piatto di pasta.
Quitab mi manda un messaggio su Whatsapp, per chiedermi cosa intendiamo fare, io passo il mio telefono a Sara, le dico di rispondergli perché non conosco i loro programmi, ma quando il telefono è nelle sue mani Quitab inizia a digitare: “Antonio, dov’è Sara? Sono innamorato di lei, non ho mai provato un sentimento così, voglio chiederle di sposarmi…”. Io le tolgo il telefono dalle mani. Sara sorride: “Forse Dio voleva che lo sapessi così…”.
Io e Gilles lasciamo la no man’s land, raggiungiamo Quitab a Opatovac, dove questo ammasso di gente sta per essere raccolto nel centro di smistamento. Sara resta al confine. Mi incolonno per entrare nel centro di smistamento: 3 ore dopo sono diventato Aziz. Anche questa notte l’umidità sale dal terreno gelandomi le ossa. Alle 6 sono già sveglio ma non ho niente da mangiare. Un ragazzo mi offre dei biscotti da intingere in un barattolo di marmellata. Il telefono è scarico. Non posso più comunicare con nessuno, se non con l’iPad, che uso di nascosto e con il contagocce, perché ha solo il 5% di batteria. Nessuno qui dentro può più comunicare con nessuno. Una sensazione opprimente.
Libertà a tappe
Tre ore per fare un metro nella fila verso l’uscita
Alle 10 del mattino mi metto in fila per lasciare il campo. Il governo ungherese accetta che i profughi passino sul suo territorio a una sola condizione: il nostro numero giornaliero deve essere definito, non un profugo in più, quindi dobbiamo aspettare che ciascun pullman rientri vuoto, per caricarci e portarci via. Siamo in una catena di montaggio. All’una, dopo 3 ore di coda, ho percorso appena un metro verso l’uscita. Davanti a me almeno mille persone. E se ti trattano da bestia, ti comporti da bestia, così arriva la prima rissa, poi la seconda, poi la terza. Una donna sviene davanti ai miei occhi. Dopo di lei un ragazzo. Non abbiamo né acqua né cibo. L’acqua in realtà ci sarebbe, basta andare all’autobotte in fondo al viale, ma nessuno, dopo ore di coda sotto il sole, è così pazzo da ricominciare tutto da capo. Passa un signore con la mostrina dell’Unhcr: “Ha dell’acqua? Abbiamo sete”, gli chiede un ragazzo. “Non ne abbiamo”, è la risposta. “Ma allora se non avete neanche l’acqua cosa cazzo ci state a fare qui?”, gli urla il ragazzo. Dopo un’ora siamo ancora fermi allo stesso posto. E inizia la protesta: “Non siamo animali”, scrivono dei ragazzi sui tappetini che hanno usato per dormire, poi si alza un unico urlo: “Maffi Mai, Maffi mai”, “siamo senz’acqua, siamo senz’acqua”. La tensione è sempre più alta. Siamo schiacciati gli uni sugli altri.
Finalmente arriva un po’ d’acqua e di cibo: sono i ragazzi di Sos konvoi, la polizia li ha fatti entrare, vedo Quitab che distribuisce bottiglie e fette di pane. Siamo stremati dall’attesa. L’interprete con il megafono prova a tranquillizzarci: “Partirete tutti entro questa sera. State tranquilli. Nessuno resterà qui dentro. Se volete potete chiedere asilo politico qui in Croazia, ma nessuno di voi vuol restare, quindi stiamo facendo il possibile per farvi partire”. Il ragazzo accanto a me chiede: “Sei siriano?”. “No, afghano”, rispondo in inglese. “Allora non hai speranze”, continua ridendo, “ti rimandano indietro. Passeranno solo i siriani”. Non riesco a crederci. Intanto il campo continua a funzionare come una catena di montaggio, dal lato destro continua ad arrivare gente, nuovi ospiti del centro, destinati a riempire il vuoto che stiamo lasciando.
Finalmente arrivano 3 pullman. Ennesima rissa. Qui dentro siamo pronti dividere qualsiasi cosa, dall’ultimo bicchiere d’acqua all’ultimo biscotto, dall’ultima sigaretta all’ultima coperta, tranne il posto in questa maledetta coda che dura ormai da 8 ore. Il campo alle mie spalle invece s’è già riempito di altre migliaia di persone. La polizia ci fa sedere. Il signore dell’Unhcr passa con una specie di cronometro, spinge un pulsante: ci sta contando: “Siete fortunati – ci dice – voi riuscirete a partire entro stanotte”. A mezzanotte risuona il solito grido: “Al jebaaab, al jebaaab”. Possiamo partire. Ma non sappiamo per dove.
Da il Fatto Quotidiano di giovedì 1 ottobre 2015
Mondo
Croazia, viaggio nel carcere a cielo aperto di Opatovac. Tra le migliaia di profughi accampati nella No Man’s Land
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Vestiti fradici, cessi intasati, cellulari scarichi, una sola cisterna per bere. Reportage de il Fatto Quotidiano nel campo profughi dove non ci sono né acqua né cibo e bisogna stare in fila per ore prima di salire su un pullman per raggiungere l'Ue
Sotto le stelle di Opatovac sono diventato un altro. Mi chiamo Aziz al Mazri, afghano, nato a Kabul il 1° gennaio 1973, non ho documenti e soprattutto: sono una pecora. L’esodo s’è trasformato in transumanza. Siamo migliaia di pecore rinchiuse in questo recinto, che è un carcere transitorio a tutti gli effetti, circondati da cani pastore che indossano la divisa antisommossa e chiariscono, sin dal primo istante, la legge che governa il campo: se resti nel gregge, se non crei problemi, ti sorridono; se esci dal gregge ti ringhiano addosso; se è proprio necessario – è successo ieri – ti menano. Entrare nel campo di Opatovac è l’unico modo per proseguire il viaggio con i profughi: da qui ci smistano, ci raccolgono all’uscita del centro, ci portano via dentro pullman organizzati dal governo croato, ma non sappiamo dove. Tra noi s’immagina: c’è chi dice Austria, chi Slovenia, chi Ungheria.
Entro nel campo alle 10 e mezza della sera, dopo una coda di 3 ore, prima in fila per uno, poi in fila per due. “Two lines. Two lines”, ripete il poliziotto croato. È gentile ed è stremato dalla stanchezza, come tutti i poliziotti croati che ho incontrato, ma quando il ragazzo accanto a me sfora la coda e si spinge più avanti, per farci capire che non scherza, lo rispedisce all’ultimo posto per ricominciare tutto. “Pet”, dice l’agente all’ingresso, che significa 5, così in cinque entriamo nel campo e sediamo su una panca. Sono all’ultima fila. Le panche sono 15. Siedo su ognuna di esse, le scalo una alla volta, finché non è il mio turno. “Pet”, dice l’ennesimo poliziotto, e in 5 possiamo finalmente entrare in una grande tenda militare. “Documenti?”, mi chiedono. “No document”, rispondo. Mi indirizza a un poliziotto che si occupa di quelli come me. “Da dove vieni?”. “Afghanistan”. “Nome?”. “Aziz al Mazri”. Ho scelto di essere afghano perché la mia lingua è il farsi e la probabilità di trovare un interprete è bassissima. Il poliziotto scrive il mio nome su un foglio che poi passa a un altro agente: lo appoggiano sotto il mio mento e mi fotografano. “Puoi andare”. Mi indirizzano verso sinistra, tra i campi e le tende militari, che son già piene. Cerco un bagno, come tutti in questo campo è pieno di merda che galleggia nell’urina fino all’orlo.
Torno nel mio sacco a pelo, tra falò accesi un po’ ovunque, mentre centinaia di persone sono già in coda, ammassate in fondo al viale: il loro vociare riecheggia per tutto il campo – “al jebab, al jebab”, “ragazzi, ragazzi”, è il richiamo che mi accompagna ormai da giorni.
Risveglio tra i falò
La litania dell’altoparlante: “Seduti e abbiate pazienza”
È il grido di chi chiama il suo gruppo per avvertirlo che è in vista il pullman o il treno per raggiungere la prossima a tappa. “Al jebab, al jebab”: le stesse parole che mi hanno svegliato questa mattina, alla stazione di Tovarnik, quando è iniziata la lunga giornata che mi ha portato qui.
“Al jebaaab, al jebaaaab!” è l’urlo che mi scuote alle 5 del mattino. Siamo migliaia, rincoglioniti dal freddo della notte, dalla stanchezza, dalla fame. Non c’è un posto dove potersi lavare: ho gli stessi vestiti da tre giorni. Infilo le scarpe, sono bagnate per l’umidità, ma scopro di avere un problema peggiore: ho perso il portafogli, per fortuna non il passaporto. Mi restano 15 euro che avevo lasciato in un’altra tasca. Dai binari il megafono della polizia ogni 10 minuti ripete la stessa litania: “Please sit down and wait your turn, it will be slowly, be patient”, “sedete e aspettate il vostro turno, si va lentamente, abbiate pazienza”. Sì, ma dove si va? Nessuno sa dirlo. Chiamo Gilles, il volontario belga che ho conosciuto la notte prima, sperando che mi porti in paese, per cercare un money transfert e farmi spedire un po’ di soldi. Mentre lo aspetto vedo i binari svuotarsi davanti ai miei occhi. Ma non è finita: Gilles mi spiega che altre mille persone stanno arrivando a Sid, confine serbo, per passare in Croazia. È un esodo senza fine. Ho appena deciso di trascorrere la giornata con Gilles e gli altri volontari – è quasi mezzogiorno – quando sento urlare il mio nome: è Misko, il tassista serbo che da Sid, ieri sera, mi ha accompagnato a Tovarnik. È venuto dalla Serbia a cercarmi, qui, per restituirmi il portafogli. Non ho parole. “Controlla – mi dice – c’è tutto?”. Lo abbraccio. Gilles mi chiama, dobbiamo andare. Con noi c’è Quitab, un ragazzo siriano arrivato in Germania 9 mesi fa: è stato torturato dal regime di Assad, gli hanno spezzato le dita, ma è riuscito a fuggire, ha chiesto asilo politico, ora ha un passaporto tedesco, è qui per dare assistenza. Poi c’è Sara, una ragazza algerina, bruna, piccola, sembra porti il sole ovunque vada. Indossa il hijab, quando ci mostra il suo doppio passaporto – algerino e ceco – copre la foto: non dobbiamo guardarle i capelli.
Quitab e Sara
Il caso e il colpo di fulmine tra i volontari di Sos konvoi
Quitab e Sara si conoscono oggi, per la prima volta, come molti ragazzi arrivati qui con Sos konvoi, che non è un’organizzazione, ma una meravigliosa manifestazione di anarchia. Non c’è un capo. Le decisioni sono condivise. Zero burocrazia. Ciascuno assume la propria responsabilità. Il cento per cento dei soldi raccolti sono utilizzati per i rifugiati.
Al varco con la Serbia, però, Quitab deve scendere: ha il passaporto valido, ma non ha il visto. Siamo nella no man’s land, duecento metri che non sono né Serbia né Croazia, il letto di un fiume di gente che straripa e s’ingrossa di ora in ora, attraversando la stradina che taglia in due un campo di granturco. Venticinque anni fa, prima che la Jugoslavia implodesse, questa frontiera non esisteva. I confini nascono nei posti più strani: qui è cresciuta attorno a un piccolo cimitero. E intorno al cimitero si accalcano in 3 mila. Molti sono cristiani, portano un rosario al collo, i bambini sono centinaia. Hanno fame, freddo, c’è chi ha bisogno di un medico. La Croce Rossa è dall’altro lato della strada, per raggiungerli bisogna passare su un tappeto umano, intorno non vedo nessuno dell’Unhcr, ma a un lato della strada trovo le loro coperte.
Sono settimane che in questo tratto di strada passano decine di migliaia di profughi: perché non ci sono medici? A che serve la Croce Rossa, qui, in questo modo? Che sta facendo – qui, in questo momento – l’Unhcr? I ragazzi di Sos konvoi nel frattempo realizzano il miracolo: decine di pentoloni di cibo caldo – riso con fagioli e mais – per migliaia di persone. Coinvolgono una decina di profughi, che ordinano le file, mediano e fanno da interpreti, per evitare che si creino risse al passaggio di una coperta o un piatto di pasta.
Quitab mi manda un messaggio su Whatsapp, per chiedermi cosa intendiamo fare, io passo il mio telefono a Sara, le dico di rispondergli perché non conosco i loro programmi, ma quando il telefono è nelle sue mani Quitab inizia a digitare: “Antonio, dov’è Sara? Sono innamorato di lei, non ho mai provato un sentimento così, voglio chiederle di sposarmi…”. Io le tolgo il telefono dalle mani. Sara sorride: “Forse Dio voleva che lo sapessi così…”.
Io e Gilles lasciamo la no man’s land, raggiungiamo Quitab a Opatovac, dove questo ammasso di gente sta per essere raccolto nel centro di smistamento. Sara resta al confine. Mi incolonno per entrare nel centro di smistamento: 3 ore dopo sono diventato Aziz. Anche questa notte l’umidità sale dal terreno gelandomi le ossa. Alle 6 sono già sveglio ma non ho niente da mangiare. Un ragazzo mi offre dei biscotti da intingere in un barattolo di marmellata. Il telefono è scarico. Non posso più comunicare con nessuno, se non con l’iPad, che uso di nascosto e con il contagocce, perché ha solo il 5% di batteria. Nessuno qui dentro può più comunicare con nessuno. Una sensazione opprimente.
Libertà a tappe
Tre ore per fare un metro nella fila verso l’uscita
Alle 10 del mattino mi metto in fila per lasciare il campo. Il governo ungherese accetta che i profughi passino sul suo territorio a una sola condizione: il nostro numero giornaliero deve essere definito, non un profugo in più, quindi dobbiamo aspettare che ciascun pullman rientri vuoto, per caricarci e portarci via. Siamo in una catena di montaggio. All’una, dopo 3 ore di coda, ho percorso appena un metro verso l’uscita. Davanti a me almeno mille persone. E se ti trattano da bestia, ti comporti da bestia, così arriva la prima rissa, poi la seconda, poi la terza. Una donna sviene davanti ai miei occhi. Dopo di lei un ragazzo. Non abbiamo né acqua né cibo. L’acqua in realtà ci sarebbe, basta andare all’autobotte in fondo al viale, ma nessuno, dopo ore di coda sotto il sole, è così pazzo da ricominciare tutto da capo. Passa un signore con la mostrina dell’Unhcr: “Ha dell’acqua? Abbiamo sete”, gli chiede un ragazzo. “Non ne abbiamo”, è la risposta. “Ma allora se non avete neanche l’acqua cosa cazzo ci state a fare qui?”, gli urla il ragazzo. Dopo un’ora siamo ancora fermi allo stesso posto. E inizia la protesta: “Non siamo animali”, scrivono dei ragazzi sui tappetini che hanno usato per dormire, poi si alza un unico urlo: “Maffi Mai, Maffi mai”, “siamo senz’acqua, siamo senz’acqua”. La tensione è sempre più alta. Siamo schiacciati gli uni sugli altri.
Finalmente arriva un po’ d’acqua e di cibo: sono i ragazzi di Sos konvoi, la polizia li ha fatti entrare, vedo Quitab che distribuisce bottiglie e fette di pane. Siamo stremati dall’attesa. L’interprete con il megafono prova a tranquillizzarci: “Partirete tutti entro questa sera. State tranquilli. Nessuno resterà qui dentro. Se volete potete chiedere asilo politico qui in Croazia, ma nessuno di voi vuol restare, quindi stiamo facendo il possibile per farvi partire”. Il ragazzo accanto a me chiede: “Sei siriano?”. “No, afghano”, rispondo in inglese. “Allora non hai speranze”, continua ridendo, “ti rimandano indietro. Passeranno solo i siriani”. Non riesco a crederci. Intanto il campo continua a funzionare come una catena di montaggio, dal lato destro continua ad arrivare gente, nuovi ospiti del centro, destinati a riempire il vuoto che stiamo lasciando.
Finalmente arrivano 3 pullman. Ennesima rissa. Qui dentro siamo pronti dividere qualsiasi cosa, dall’ultimo bicchiere d’acqua all’ultimo biscotto, dall’ultima sigaretta all’ultima coperta, tranne il posto in questa maledetta coda che dura ormai da 8 ore. Il campo alle mie spalle invece s’è già riempito di altre migliaia di persone. La polizia ci fa sedere. Il signore dell’Unhcr passa con una specie di cronometro, spinge un pulsante: ci sta contando: “Siete fortunati – ci dice – voi riuscirete a partire entro stanotte”. A mezzanotte risuona il solito grido: “Al jebaaab, al jebaaab”. Possiamo partire. Ma non sappiamo per dove.
Da il Fatto Quotidiano di giovedì 1 ottobre 2015
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Roma, 4 feb. (Adnkronos) - Disagi in vista oggi in Lombardia per chi si sposta in treno. Dalle 3 di mercoledì 5 febbraio 2025 alle 2 di giovedì 6 il sindacato Orsa ha proclamato una giornata di sciopero che potrà generare ripercussioni al servizio Regionale, Suburbano, Aeroportuale e la Lunga Percorrenza di Trenord. Viaggeranno i treni con partenza prevista dopo le 6 e dopo le 18, con arrivo previsto entro le 9 ed entro le 21.
Nel caso di cancellazione dei treni del servizio aeroportuale, saranno istituiti bus senza fermate intermedie tra: Milano Cadorna e Malpensa Aeroporto per il Malpensa Express. Da Milano Cadorna gli autobus partiranno da via Paleocapa 1. Stabio e Malpensa Aeroporto per il collegamento aeroportuale S50 Malpensa Aeroporto – Stabio.
Disagi in vista anche per chi viaggia in aereo con lo sciopero del personale delle aziende di handling associate a Assohandlers indetto dalla Flai Trasporti e Servizi.
Cagliari, 04 feb. - (Adnkronos) - È morto il principe Karim Aga Khan, fu lui il 14 marzo del 1962 a fondare il Consorzio Costa Smeralda e portare al centro del mondo un angolo di Sardegna. "Non abbiamo parole. Solo una: grazie", è il commento ufficiale del Consorzio. L'annuncio ufficiale della scomparsa arriva dall'Aga Khan Development Network. "Sua Altezza il principe Karim Al-Hussaini, Aga Khan IV, 49° Imam ereditario dei musulmani sciiti ismailiti e diretto discendente del profeta Maometto (pace sia con lui), è deceduto pacificamente a Lisbona il 4 febbraio 2025, all'età di 88 anni, circondato dalla sua famiglia". A breve è previsto l'annuncio del suo successore.
"I leader e lo staff dell'Aga Khan Development Network porgono le nostre condoglianze alla famiglia di Sua Altezza e alla comunità ismailita di tutto il mondo - si legge in una nota -. Mentre onoriamo l'eredità del nostro fondatore, il principe Karim Aga Khan, continuiamo a lavorare con i nostri partner per migliorare la qualità della vita degli individui e delle comunità in tutto il mondo, come lui desiderava, indipendentemente dalle loro appartenenze religiose o origini".
Roma, 4 feb. (Adnkronos) - "La presidente del Consiglio riferisca in Parlamento sulla vicenda Almasri. Prima lo farà, prima potrà occuparsi dei gravi problemi del Paese e tentare qualche soluzione alla crisi industriale, al Pil che ristagna, alla sanità ormai alla deriva. Perda meno tempo nella comunicazione social e ne trovi per cose più gravi e urgenti. Chi la segue nei suoi video e poi legge la bolletta della luce e del gas comincia a chiedersi come mai tanta distanza fra la realtà e la rappresentazione che ne dà Meloni. Sulla vicenda Almasri ci metta la faccia, ma in Parlamento e non su X o Instagram. Solo così potrà chiudere una vicenda gestita male e conclusa peggio". Lo dice Daniela Ruffino di Azione.
Roma, 4 feb. (Adnkronos) - Fdi e Lega all'attacco del Pd sull'inchiesta campana sul favoreggiamento dell'immigrazione clandestina che vede coinvolto il tesoriere regionale dem, Nicola Salvati, già sospeso ieri dal partito. "Siamo sconcertati da queste notizie che coinvolgono i 'buoni e generosi' del Pd. Se le accuse fossero confermate sarebbe gravissimo", attacca direttamente Matteo Salvini via social. Anche la premier Giorgia Meloni dedica un post alla vicenda sottolineando come l'inchiesta campana confermi "ancora una volta quanto denunciato dal Governo: per anni, la gestione dei flussi migratori è stata terreno fertile per criminali senza scrupoli". La premier garantisce: "Continueremo a lavorare per ristabilire regole serie e legalità".
Non tarda la replica dei dem che, dopo aver sospeso ieri Salvati, oggi hanno incaricato il tesoriere nazionale del Pd, Michele Fina, di assumere la gestione della tesoreria regionale. "Quanto al merito della vicenda, oltre ad averlo rimosso dall'incarico di tesoriere, dopo un secondo lo abbiamo immediatamente sospeso in via cautelare dall'anagrafe degli iscritti del Pd -sottolinea lo stesso Fina-. E' giusto il caso di osservare che una ministra della Repubblica, rinviata a giudizio per falso in bilancio e sotto indagine per truffa ai danni dello Stato, siede ancora tranquillamente al suo posto. Prego di notare le differenze".
Nella vicenda intervengono anche i 5 Stelle. Il capogruppo Riccardo Ricciardi va giù duro: "Per qualsiasi percorso di alleanza, nazionale o territoriale, ci vuole la massima intransigenza. Ci auguriamo che chi vuole sottoscrivere un accordo con i 5 stelle faccia una pulizia totale in casa propria". Una 'pulizia' che in Campania la stessa Elly Schlein ha come obiettivo. Giuseppe Conte ricorda come "l'etica pubblica è fondamentale" per i 5 Stelle ma è su Meloni che il leader M5S batte, anche su questa vicenda. E a stretto giro ribatte via social al post della premier. "Non posso crederci: Meloni, davvero hai fatto un post per denunciare che l’'immigrazione non può essere lasciata in balia della criminalità'? Cioè tu scappi dal Parlamento per non spiegare agli italiani perché hai rimpatriato con volo di Stato un boia, con accuse di stupri di bambini, al centro dei traffici di migranti e oggi te ne esci con un post così? Ma davvero ti sei convinta che noi italiani siamo tutti idioti a eccezione di te, tua sorella e dei tuoi stretti sodali? Per farti tornare alla realtà ti allego due immagini: in una il criminale Almasri che scende dal volo di Stato, nell'altra una notizia di qualche mese fa dai comuni d'Italia".
Roma, 4 feb. (Adnkronos) - “Giorgia Meloni continua a fuggire dal parlamento preferendo parlare continuamente sui social, quasi fosse una influencer e non la Presidente del Consiglio. Manda i due ministri, Nordio e Piantedosi, che avevano fatto saltare la precedente informativa con una motivazione menzognera: siccome c'era il segreto istruttorio e per rispetto delle indagini, non avrebbero potuto partecipare. Mentivano sapendo di mentire". Così Angelo Bonelli, parlamentare di AVS e portavoce di Europa Verde.
"Perché la Legge Costituzionale n°1 del 16 gennaio 1989, all'articolo 6, stabilisce in modo inequivocabile che il procuratore invia la denuncia al tribunale dei ministri senza svolgere alcuna indagine. È quindi evidente che gli interessati sapevano che non ci sono indagini e che non c'è alcun segreto istruttorio da rispettare. Infatti, domani i ministri Piantedosi e Nordio si presentano a Montecitorio per l'informativa. Si presentano per non far venire la premier Meloni: colei che ha accusato l'opposizione, in particolar modo Alleanza Verdi e Sinistra, di essere amici dei trafficanti di esseri umani".
"Ora l'Italia e l'opinione pubblica internazionale hanno la prova che lei è amica e complice dei trafficanti di esseri umani. Giorgia Meloni venga in Aula a spiegare perché! È ora di farla finita con il complottismo e il vittimismo da propaganda di Giorgia Meloni, che sparge sui social e nelle trasmissioni televisive amiche", conclude Bonelli.
Civitavecchia, 4 feb. (Adnkronos) - "Sono in corso i lavori per la costruzione del nuovo Terminal Donato Bramante che, ci auguriamo, sarà pronto entro la seconda parte del 2025. Sarà una struttura completamente green che migliorerà l’esperienza dei crocieristi che vengono qui a Civitavecchia. Abbiamo inoltre completato l’impianto fotovoltaico del Terminal Vespucci, che quindi sarà interamente alimentato da energia rinnovabile. Stiamo lavorando sul rinnovamento del design del Terminal 10 per poi trasferirlo al 18 e che sarà dedicato alle navi boutique, a conferma della vocazione di Civitavecchia come hub europeo principale per questo genere di imbarcazioni". Ad affermarlo è John Portelli, Direttore Generale della Roma Cruise Terminal (Rct) alla conferenza stampa che si è tenuta presso la Sala Comitato dell’AdSP – Molo Vespucci snc a Civitavecchia – illustrando i molteplici interventi infrastrutturali che stanno rendendo il porto di Civitavecchia sempre più funzionale ed ecosostenibile.
"Ma ci sono altri progetti importanti che vedono il ripensamento di tutta l’area portuale di Civitavecchia – continua Portelli -, i nuovi varchi che saranno inaugurati nel 2025, il ponte che collegherà questa parte del porto con le banchine delle crociere. E poi, le nuove bitte di 300 tonnellate che sono piuttosto rare nei porti italiani e che sono fondamentali per dare flessibilità agli ormeggi, specialmente per le grandi navi che si fermano nel porto di Civitavecchia".
Civitavecchia, 4 feb. (Adnkronos) - "Dopo aver superato la soglia dei 3 milioni di turisti in transito nel porto di Civitavecchia, l’anno scorso, traguardo mai raggiunto da nessun porto in Italia, oggi celebriamo il risultato di 3.459.000, un risultato importantissimo e straordinario, non solo su base nazionale, ma europeo e mondiale, visto che siamo secondi – e, ormai, di poco – solo a Barcellona, e contiamo di superarla in un paio d’anni, posizionandoci ormai tra i primi sei porti crocieristici al mondo". Ad affermarlo è Pino Musolino, Commissario Straordinario dell’AdSP del Mar Tirreno Centro Settentrionale, in occasione della conferenza stampa che si è tenuta presso la Sala Comitato dell’AdSP – Molo Vespucci snc a Civitavecchia – per illustrare i dati delle crociere del 2024 e le prospettive di sviluppo del traffico crocieristico.
"Un altro dato importante – continua Musolino – riguarda anche l’effetto che le crociere turnaround, cioè che partono e arrivano a Civitavecchia hanno prodotto sui servizi di ricettività della città. Il 79% degli operatori di bed and breakfast o di alberghi dichiara che senza le crociere il loro lavoro sarebbe fortemente penalizzato. Parliamo di ristoranti, parcheggi fuori dal porto un’industria che produce tanto lavoro in molti settori”. Un indotto che non favorisce solo Civitavecchia, ma di cui beneficia, ovviamente, oltre alla città di Roma, meta di riferimento per i turisti delle crociere, anche tutto il territorio laziale. “In questi anni, siamo riusciti a mandare oltre 20.000 persone in località come Viterbo e Bomarzo", conclude il Commissario Straordinario dell’AdSP del Mar Tirreno Centro Settentrionale.