Sotto le stelle di Opatovac sono diventato un altro. Mi chiamo Aziz al Mazri, afghano, nato a Kabul il 1° gennaio 1973, non ho documenti e soprattutto: sono una pecora. L’esodo s’è trasformato in transumanza. Siamo migliaia di pecore rinchiuse in questo recinto, che è un carcere transitorio a tutti gli effetti, circondati da cani pastore che indossano la divisa antisommossa e chiariscono, sin dal primo istante, la legge che governa il campo: se resti nel gregge, se non crei problemi, ti sorridono; se esci dal gregge ti ringhiano addosso; se è proprio necessario – è successo ieri – ti menano. Entrare nel campo di Opatovac è l’unico modo per proseguire il viaggio con i profughi: da qui ci smistano, ci raccolgono all’uscita del centro, ci portano via dentro pullman organizzati dal governo croato, ma non sappiamo dove. Tra noi s’immagina: c’è chi dice Austria, chi Slovenia, chi Ungheria.
Entro nel campo alle 10 e mezza della sera, dopo una coda di 3 ore, prima in fila per uno, poi in fila per due. “Two lines. Two lines”, ripete il poliziotto croato. È gentile ed è stremato dalla stanchezza, come tutti i poliziotti croati che ho incontrato, ma quando il ragazzo accanto a me sfora la coda e si spinge più avanti, per farci capire che non scherza, lo rispedisce all’ultimo posto per ricominciare tutto. “Pet”, dice l’agente all’ingresso, che significa 5, così in cinque entriamo nel campo e sediamo su una panca. Sono all’ultima fila. Le panche sono 15. Siedo su ognuna di esse, le scalo una alla volta, finché non è il mio turno. “Pet”, dice l’ennesimo poliziotto, e in 5 possiamo finalmente entrare in una grande tenda militare. “Documenti?”, mi chiedono. “No document”, rispondo. Mi indirizza a un poliziotto che si occupa di quelli come me. “Da dove vieni?”. “Afghanistan”. “Nome?”. “Aziz al Mazri”. Ho scelto di essere afghano perché la mia lingua è il farsi e la probabilità di trovare un interprete è bassissima. Il poliziotto scrive il mio nome su un foglio che poi passa a un altro agente: lo appoggiano sotto il mio mento e mi fotografano. “Puoi andare”. Mi indirizzano verso sinistra, tra i campi e le tende militari, che son già piene. Cerco un bagno, come tutti in questo campo è pieno di merda che galleggia nell’urina fino all’orlo.
Torno nel mio sacco a pelo, tra falò accesi un po’ ovunque, mentre centinaia di persone sono già in coda, ammassate in fondo al viale: il loro vociare riecheggia per tutto il campo – “al jebab, al jebab”, “ragazzi, ragazzi”, è il richiamo che mi accompagna ormai da giorni.
Risveglio tra i falò
La litania dell’altoparlante: “Seduti e abbiate pazienza”
È il grido di chi chiama il suo gruppo per avvertirlo che è in vista il pullman o il treno per raggiungere la prossima a tappa. “Al jebab, al jebab”: le stesse parole che mi hanno svegliato questa mattina, alla stazione di Tovarnik, quando è iniziata la lunga giornata che mi ha portato qui.
“Al jebaaab, al jebaaaab!” è l’urlo che mi scuote alle 5 del mattino. Siamo migliaia, rincoglioniti dal freddo della notte, dalla stanchezza, dalla fame. Non c’è un posto dove potersi lavare: ho gli stessi vestiti da tre giorni. Infilo le scarpe, sono bagnate per l’umidità, ma scopro di avere un problema peggiore: ho perso il portafogli, per fortuna non il passaporto. Mi restano 15 euro che avevo lasciato in un’altra tasca. Dai binari il megafono della polizia ogni 10 minuti ripete la stessa litania: “Please sit down and wait your turn, it will be slowly, be patient”, “sedete e aspettate il vostro turno, si va lentamente, abbiate pazienza”. Sì, ma dove si va? Nessuno sa dirlo. Chiamo Gilles, il volontario belga che ho conosciuto la notte prima, sperando che mi porti in paese, per cercare un money transfert e farmi spedire un po’ di soldi. Mentre lo aspetto vedo i binari svuotarsi davanti ai miei occhi. Ma non è finita: Gilles mi spiega che altre mille persone stanno arrivando a Sid, confine serbo, per passare in Croazia. È un esodo senza fine. Ho appena deciso di trascorrere la giornata con Gilles e gli altri volontari – è quasi mezzogiorno – quando sento urlare il mio nome: è Misko, il tassista serbo che da Sid, ieri sera, mi ha accompagnato a Tovarnik. È venuto dalla Serbia a cercarmi, qui, per restituirmi il portafogli. Non ho parole. “Controlla – mi dice – c’è tutto?”. Lo abbraccio. Gilles mi chiama, dobbiamo andare. Con noi c’è Quitab, un ragazzo siriano arrivato in Germania 9 mesi fa: è stato torturato dal regime di Assad, gli hanno spezzato le dita, ma è riuscito a fuggire, ha chiesto asilo politico, ora ha un passaporto tedesco, è qui per dare assistenza. Poi c’è Sara, una ragazza algerina, bruna, piccola, sembra porti il sole ovunque vada. Indossa il hijab, quando ci mostra il suo doppio passaporto – algerino e ceco – copre la foto: non dobbiamo guardarle i capelli.
Quitab e Sara
Il caso e il colpo di fulmine tra i volontari di Sos konvoi
Quitab e Sara si conoscono oggi, per la prima volta, come molti ragazzi arrivati qui con Sos konvoi, che non è un’organizzazione, ma una meravigliosa manifestazione di anarchia. Non c’è un capo. Le decisioni sono condivise. Zero burocrazia. Ciascuno assume la propria responsabilità. Il cento per cento dei soldi raccolti sono utilizzati per i rifugiati.
Al varco con la Serbia, però, Quitab deve scendere: ha il passaporto valido, ma non ha il visto. Siamo nella no man’s land, duecento metri che non sono né Serbia né Croazia, il letto di un fiume di gente che straripa e s’ingrossa di ora in ora, attraversando la stradina che taglia in due un campo di granturco. Venticinque anni fa, prima che la Jugoslavia implodesse, questa frontiera non esisteva. I confini nascono nei posti più strani: qui è cresciuta attorno a un piccolo cimitero. E intorno al cimitero si accalcano in 3 mila. Molti sono cristiani, portano un rosario al collo, i bambini sono centinaia. Hanno fame, freddo, c’è chi ha bisogno di un medico. La Croce Rossa è dall’altro lato della strada, per raggiungerli bisogna passare su un tappeto umano, intorno non vedo nessuno dell’Unhcr, ma a un lato della strada trovo le loro coperte.
Sono settimane che in questo tratto di strada passano decine di migliaia di profughi: perché non ci sono medici? A che serve la Croce Rossa, qui, in questo modo? Che sta facendo – qui, in questo momento – l’Unhcr? I ragazzi di Sos konvoi nel frattempo realizzano il miracolo: decine di pentoloni di cibo caldo – riso con fagioli e mais – per migliaia di persone. Coinvolgono una decina di profughi, che ordinano le file, mediano e fanno da interpreti, per evitare che si creino risse al passaggio di una coperta o un piatto di pasta.
Quitab mi manda un messaggio su Whatsapp, per chiedermi cosa intendiamo fare, io passo il mio telefono a Sara, le dico di rispondergli perché non conosco i loro programmi, ma quando il telefono è nelle sue mani Quitab inizia a digitare: “Antonio, dov’è Sara? Sono innamorato di lei, non ho mai provato un sentimento così, voglio chiederle di sposarmi…”. Io le tolgo il telefono dalle mani. Sara sorride: “Forse Dio voleva che lo sapessi così…”.
Io e Gilles lasciamo la no man’s land, raggiungiamo Quitab a Opatovac, dove questo ammasso di gente sta per essere raccolto nel centro di smistamento. Sara resta al confine. Mi incolonno per entrare nel centro di smistamento: 3 ore dopo sono diventato Aziz. Anche questa notte l’umidità sale dal terreno gelandomi le ossa. Alle 6 sono già sveglio ma non ho niente da mangiare. Un ragazzo mi offre dei biscotti da intingere in un barattolo di marmellata. Il telefono è scarico. Non posso più comunicare con nessuno, se non con l’iPad, che uso di nascosto e con il contagocce, perché ha solo il 5% di batteria. Nessuno qui dentro può più comunicare con nessuno. Una sensazione opprimente.
Libertà a tappe
Tre ore per fare un metro nella fila verso l’uscita
Alle 10 del mattino mi metto in fila per lasciare il campo. Il governo ungherese accetta che i profughi passino sul suo territorio a una sola condizione: il nostro numero giornaliero deve essere definito, non un profugo in più, quindi dobbiamo aspettare che ciascun pullman rientri vuoto, per caricarci e portarci via. Siamo in una catena di montaggio. All’una, dopo 3 ore di coda, ho percorso appena un metro verso l’uscita. Davanti a me almeno mille persone. E se ti trattano da bestia, ti comporti da bestia, così arriva la prima rissa, poi la seconda, poi la terza. Una donna sviene davanti ai miei occhi. Dopo di lei un ragazzo. Non abbiamo né acqua né cibo. L’acqua in realtà ci sarebbe, basta andare all’autobotte in fondo al viale, ma nessuno, dopo ore di coda sotto il sole, è così pazzo da ricominciare tutto da capo. Passa un signore con la mostrina dell’Unhcr: “Ha dell’acqua? Abbiamo sete”, gli chiede un ragazzo. “Non ne abbiamo”, è la risposta. “Ma allora se non avete neanche l’acqua cosa cazzo ci state a fare qui?”, gli urla il ragazzo. Dopo un’ora siamo ancora fermi allo stesso posto. E inizia la protesta: “Non siamo animali”, scrivono dei ragazzi sui tappetini che hanno usato per dormire, poi si alza un unico urlo: “Maffi Mai, Maffi mai”, “siamo senz’acqua, siamo senz’acqua”. La tensione è sempre più alta. Siamo schiacciati gli uni sugli altri.
Finalmente arriva un po’ d’acqua e di cibo: sono i ragazzi di Sos konvoi, la polizia li ha fatti entrare, vedo Quitab che distribuisce bottiglie e fette di pane. Siamo stremati dall’attesa. L’interprete con il megafono prova a tranquillizzarci: “Partirete tutti entro questa sera. State tranquilli. Nessuno resterà qui dentro. Se volete potete chiedere asilo politico qui in Croazia, ma nessuno di voi vuol restare, quindi stiamo facendo il possibile per farvi partire”. Il ragazzo accanto a me chiede: “Sei siriano?”. “No, afghano”, rispondo in inglese. “Allora non hai speranze”, continua ridendo, “ti rimandano indietro. Passeranno solo i siriani”. Non riesco a crederci. Intanto il campo continua a funzionare come una catena di montaggio, dal lato destro continua ad arrivare gente, nuovi ospiti del centro, destinati a riempire il vuoto che stiamo lasciando.
Finalmente arrivano 3 pullman. Ennesima rissa. Qui dentro siamo pronti dividere qualsiasi cosa, dall’ultimo bicchiere d’acqua all’ultimo biscotto, dall’ultima sigaretta all’ultima coperta, tranne il posto in questa maledetta coda che dura ormai da 8 ore. Il campo alle mie spalle invece s’è già riempito di altre migliaia di persone. La polizia ci fa sedere. Il signore dell’Unhcr passa con una specie di cronometro, spinge un pulsante: ci sta contando: “Siete fortunati – ci dice – voi riuscirete a partire entro stanotte”. A mezzanotte risuona il solito grido: “Al jebaaab, al jebaaab”. Possiamo partire. Ma non sappiamo per dove.
Da il Fatto Quotidiano di giovedì 1 ottobre 2015
Mondo
Croazia, viaggio nel carcere a cielo aperto di Opatovac. Tra le migliaia di profughi accampati nella No Man’s Land
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Vestiti fradici, cessi intasati, cellulari scarichi, una sola cisterna per bere. Reportage de il Fatto Quotidiano nel campo profughi dove non ci sono né acqua né cibo e bisogna stare in fila per ore prima di salire su un pullman per raggiungere l'Ue
Sotto le stelle di Opatovac sono diventato un altro. Mi chiamo Aziz al Mazri, afghano, nato a Kabul il 1° gennaio 1973, non ho documenti e soprattutto: sono una pecora. L’esodo s’è trasformato in transumanza. Siamo migliaia di pecore rinchiuse in questo recinto, che è un carcere transitorio a tutti gli effetti, circondati da cani pastore che indossano la divisa antisommossa e chiariscono, sin dal primo istante, la legge che governa il campo: se resti nel gregge, se non crei problemi, ti sorridono; se esci dal gregge ti ringhiano addosso; se è proprio necessario – è successo ieri – ti menano. Entrare nel campo di Opatovac è l’unico modo per proseguire il viaggio con i profughi: da qui ci smistano, ci raccolgono all’uscita del centro, ci portano via dentro pullman organizzati dal governo croato, ma non sappiamo dove. Tra noi s’immagina: c’è chi dice Austria, chi Slovenia, chi Ungheria.
Entro nel campo alle 10 e mezza della sera, dopo una coda di 3 ore, prima in fila per uno, poi in fila per due. “Two lines. Two lines”, ripete il poliziotto croato. È gentile ed è stremato dalla stanchezza, come tutti i poliziotti croati che ho incontrato, ma quando il ragazzo accanto a me sfora la coda e si spinge più avanti, per farci capire che non scherza, lo rispedisce all’ultimo posto per ricominciare tutto. “Pet”, dice l’agente all’ingresso, che significa 5, così in cinque entriamo nel campo e sediamo su una panca. Sono all’ultima fila. Le panche sono 15. Siedo su ognuna di esse, le scalo una alla volta, finché non è il mio turno. “Pet”, dice l’ennesimo poliziotto, e in 5 possiamo finalmente entrare in una grande tenda militare. “Documenti?”, mi chiedono. “No document”, rispondo. Mi indirizza a un poliziotto che si occupa di quelli come me. “Da dove vieni?”. “Afghanistan”. “Nome?”. “Aziz al Mazri”. Ho scelto di essere afghano perché la mia lingua è il farsi e la probabilità di trovare un interprete è bassissima. Il poliziotto scrive il mio nome su un foglio che poi passa a un altro agente: lo appoggiano sotto il mio mento e mi fotografano. “Puoi andare”. Mi indirizzano verso sinistra, tra i campi e le tende militari, che son già piene. Cerco un bagno, come tutti in questo campo è pieno di merda che galleggia nell’urina fino all’orlo.
Torno nel mio sacco a pelo, tra falò accesi un po’ ovunque, mentre centinaia di persone sono già in coda, ammassate in fondo al viale: il loro vociare riecheggia per tutto il campo – “al jebab, al jebab”, “ragazzi, ragazzi”, è il richiamo che mi accompagna ormai da giorni.
Risveglio tra i falò
La litania dell’altoparlante: “Seduti e abbiate pazienza”
È il grido di chi chiama il suo gruppo per avvertirlo che è in vista il pullman o il treno per raggiungere la prossima a tappa. “Al jebab, al jebab”: le stesse parole che mi hanno svegliato questa mattina, alla stazione di Tovarnik, quando è iniziata la lunga giornata che mi ha portato qui.
“Al jebaaab, al jebaaaab!” è l’urlo che mi scuote alle 5 del mattino. Siamo migliaia, rincoglioniti dal freddo della notte, dalla stanchezza, dalla fame. Non c’è un posto dove potersi lavare: ho gli stessi vestiti da tre giorni. Infilo le scarpe, sono bagnate per l’umidità, ma scopro di avere un problema peggiore: ho perso il portafogli, per fortuna non il passaporto. Mi restano 15 euro che avevo lasciato in un’altra tasca. Dai binari il megafono della polizia ogni 10 minuti ripete la stessa litania: “Please sit down and wait your turn, it will be slowly, be patient”, “sedete e aspettate il vostro turno, si va lentamente, abbiate pazienza”. Sì, ma dove si va? Nessuno sa dirlo. Chiamo Gilles, il volontario belga che ho conosciuto la notte prima, sperando che mi porti in paese, per cercare un money transfert e farmi spedire un po’ di soldi. Mentre lo aspetto vedo i binari svuotarsi davanti ai miei occhi. Ma non è finita: Gilles mi spiega che altre mille persone stanno arrivando a Sid, confine serbo, per passare in Croazia. È un esodo senza fine. Ho appena deciso di trascorrere la giornata con Gilles e gli altri volontari – è quasi mezzogiorno – quando sento urlare il mio nome: è Misko, il tassista serbo che da Sid, ieri sera, mi ha accompagnato a Tovarnik. È venuto dalla Serbia a cercarmi, qui, per restituirmi il portafogli. Non ho parole. “Controlla – mi dice – c’è tutto?”. Lo abbraccio. Gilles mi chiama, dobbiamo andare. Con noi c’è Quitab, un ragazzo siriano arrivato in Germania 9 mesi fa: è stato torturato dal regime di Assad, gli hanno spezzato le dita, ma è riuscito a fuggire, ha chiesto asilo politico, ora ha un passaporto tedesco, è qui per dare assistenza. Poi c’è Sara, una ragazza algerina, bruna, piccola, sembra porti il sole ovunque vada. Indossa il hijab, quando ci mostra il suo doppio passaporto – algerino e ceco – copre la foto: non dobbiamo guardarle i capelli.
Quitab e Sara
Il caso e il colpo di fulmine tra i volontari di Sos konvoi
Quitab e Sara si conoscono oggi, per la prima volta, come molti ragazzi arrivati qui con Sos konvoi, che non è un’organizzazione, ma una meravigliosa manifestazione di anarchia. Non c’è un capo. Le decisioni sono condivise. Zero burocrazia. Ciascuno assume la propria responsabilità. Il cento per cento dei soldi raccolti sono utilizzati per i rifugiati.
Al varco con la Serbia, però, Quitab deve scendere: ha il passaporto valido, ma non ha il visto. Siamo nella no man’s land, duecento metri che non sono né Serbia né Croazia, il letto di un fiume di gente che straripa e s’ingrossa di ora in ora, attraversando la stradina che taglia in due un campo di granturco. Venticinque anni fa, prima che la Jugoslavia implodesse, questa frontiera non esisteva. I confini nascono nei posti più strani: qui è cresciuta attorno a un piccolo cimitero. E intorno al cimitero si accalcano in 3 mila. Molti sono cristiani, portano un rosario al collo, i bambini sono centinaia. Hanno fame, freddo, c’è chi ha bisogno di un medico. La Croce Rossa è dall’altro lato della strada, per raggiungerli bisogna passare su un tappeto umano, intorno non vedo nessuno dell’Unhcr, ma a un lato della strada trovo le loro coperte.
Sono settimane che in questo tratto di strada passano decine di migliaia di profughi: perché non ci sono medici? A che serve la Croce Rossa, qui, in questo modo? Che sta facendo – qui, in questo momento – l’Unhcr? I ragazzi di Sos konvoi nel frattempo realizzano il miracolo: decine di pentoloni di cibo caldo – riso con fagioli e mais – per migliaia di persone. Coinvolgono una decina di profughi, che ordinano le file, mediano e fanno da interpreti, per evitare che si creino risse al passaggio di una coperta o un piatto di pasta.
Quitab mi manda un messaggio su Whatsapp, per chiedermi cosa intendiamo fare, io passo il mio telefono a Sara, le dico di rispondergli perché non conosco i loro programmi, ma quando il telefono è nelle sue mani Quitab inizia a digitare: “Antonio, dov’è Sara? Sono innamorato di lei, non ho mai provato un sentimento così, voglio chiederle di sposarmi…”. Io le tolgo il telefono dalle mani. Sara sorride: “Forse Dio voleva che lo sapessi così…”.
Io e Gilles lasciamo la no man’s land, raggiungiamo Quitab a Opatovac, dove questo ammasso di gente sta per essere raccolto nel centro di smistamento. Sara resta al confine. Mi incolonno per entrare nel centro di smistamento: 3 ore dopo sono diventato Aziz. Anche questa notte l’umidità sale dal terreno gelandomi le ossa. Alle 6 sono già sveglio ma non ho niente da mangiare. Un ragazzo mi offre dei biscotti da intingere in un barattolo di marmellata. Il telefono è scarico. Non posso più comunicare con nessuno, se non con l’iPad, che uso di nascosto e con il contagocce, perché ha solo il 5% di batteria. Nessuno qui dentro può più comunicare con nessuno. Una sensazione opprimente.
Libertà a tappe
Tre ore per fare un metro nella fila verso l’uscita
Alle 10 del mattino mi metto in fila per lasciare il campo. Il governo ungherese accetta che i profughi passino sul suo territorio a una sola condizione: il nostro numero giornaliero deve essere definito, non un profugo in più, quindi dobbiamo aspettare che ciascun pullman rientri vuoto, per caricarci e portarci via. Siamo in una catena di montaggio. All’una, dopo 3 ore di coda, ho percorso appena un metro verso l’uscita. Davanti a me almeno mille persone. E se ti trattano da bestia, ti comporti da bestia, così arriva la prima rissa, poi la seconda, poi la terza. Una donna sviene davanti ai miei occhi. Dopo di lei un ragazzo. Non abbiamo né acqua né cibo. L’acqua in realtà ci sarebbe, basta andare all’autobotte in fondo al viale, ma nessuno, dopo ore di coda sotto il sole, è così pazzo da ricominciare tutto da capo. Passa un signore con la mostrina dell’Unhcr: “Ha dell’acqua? Abbiamo sete”, gli chiede un ragazzo. “Non ne abbiamo”, è la risposta. “Ma allora se non avete neanche l’acqua cosa cazzo ci state a fare qui?”, gli urla il ragazzo. Dopo un’ora siamo ancora fermi allo stesso posto. E inizia la protesta: “Non siamo animali”, scrivono dei ragazzi sui tappetini che hanno usato per dormire, poi si alza un unico urlo: “Maffi Mai, Maffi mai”, “siamo senz’acqua, siamo senz’acqua”. La tensione è sempre più alta. Siamo schiacciati gli uni sugli altri.
Finalmente arriva un po’ d’acqua e di cibo: sono i ragazzi di Sos konvoi, la polizia li ha fatti entrare, vedo Quitab che distribuisce bottiglie e fette di pane. Siamo stremati dall’attesa. L’interprete con il megafono prova a tranquillizzarci: “Partirete tutti entro questa sera. State tranquilli. Nessuno resterà qui dentro. Se volete potete chiedere asilo politico qui in Croazia, ma nessuno di voi vuol restare, quindi stiamo facendo il possibile per farvi partire”. Il ragazzo accanto a me chiede: “Sei siriano?”. “No, afghano”, rispondo in inglese. “Allora non hai speranze”, continua ridendo, “ti rimandano indietro. Passeranno solo i siriani”. Non riesco a crederci. Intanto il campo continua a funzionare come una catena di montaggio, dal lato destro continua ad arrivare gente, nuovi ospiti del centro, destinati a riempire il vuoto che stiamo lasciando.
Finalmente arrivano 3 pullman. Ennesima rissa. Qui dentro siamo pronti dividere qualsiasi cosa, dall’ultimo bicchiere d’acqua all’ultimo biscotto, dall’ultima sigaretta all’ultima coperta, tranne il posto in questa maledetta coda che dura ormai da 8 ore. Il campo alle mie spalle invece s’è già riempito di altre migliaia di persone. La polizia ci fa sedere. Il signore dell’Unhcr passa con una specie di cronometro, spinge un pulsante: ci sta contando: “Siete fortunati – ci dice – voi riuscirete a partire entro stanotte”. A mezzanotte risuona il solito grido: “Al jebaaab, al jebaaab”. Possiamo partire. Ma non sappiamo per dove.
Da il Fatto Quotidiano di giovedì 1 ottobre 2015
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Amsterdam, 3 feb. –(Adnkronos) - E' nell'ottica di una semplificazione "in linea con i cambiamenti comunicati" a dicembre al momento dell'uscita di Carlos Tavares, la riorganizzazione annunciata questa mattina da Stellantis. Un 'aggiornamento' che rafforza il ruolo delle singole regioni, accorpa ingegneria e software, rilancia su qualità e marketing e vede l'uscita di scena di alcuni top manager. Decisioni - si spiega in una nota - che "consentono il giusto equilibrio tra responsabilità regionali e globali, facilitando la rapidità delle scelte e la loro esecuzione" e "rafforzano ulteriormente l’impegno di Stellantis nell’ascoltare i propri clienti" ponendo "le basi per una rinnovata crescita".
A livello di management, Linda Jackson lascia il gruppo e al vertice del brand Peugeot è sostituita da Alain Favey. Abbandona anche Yves Bonnefont, Chief Software Office, visto che "le attività software sono ora integrate in un’organizzazione di sviluppo e tecnologia del prodotto guidata da Ned Curic allo scopo di semplificare il processo di immissione sul mercato di prodotti e servizi innovativi per tutti i brand in tutti i mercati in cui l’azienda è presente". Nuovo responsabile anche per Jeep, con la nomina di Bob Broderdorf, dal momento che Antonio Filosa - che mantiene il suo attuale ruolo di COO delle Regioni d’America - assume la leadership globale dell’ente Quality, definito "fulcro della promessa dell’azienda ai clienti".
Nuovo capo anche per DS, dal momento che Olivier François - che mantiene la responsabilità di Fiat e Abarth - guiderà un nuovo Marketing Office, per seguire meglio le attività di promozione dei singoli brand e "supportarli al meglio, in particolare attraverso la pubblicità, gli eventi globali e le sponsorizzazioni". Gli enti Corporate Affairs e Communications sono stati uniti sotto la guida di Clara Ingen-Housz e Anne Abboud è stata nominata alla guida dell’unità veicoli commerciali di Stellantis Pro One.
Come sottolinea il Chairman di Stellantis John Elkann "gli annunci di oggi semplificheranno ulteriormente la nostra organizzazione e aumenteranno la nostra agilità e il rigore dell’esecuzione a livello locale. Non vediamo l’ora di guidare la crescita fornendo ai nostri clienti una scelta ancora più ampia di straordinari veicoli a combustione, ibridi ed elettrici”. Confermata la linea sul processo di nomina del nuovo Chief Executive Officer che "è in corso, gestito da un Comitato Speciale del Consiglio d’Amministrazione, e si concluderà entro la prima metà del 2025".
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - “Siamo vicini ad Antonio Tajani, alla sua famiglia e soprattutto a suo figlio Filippo, vittima di un malore durante una partita di calcio. Gli auguriamo una pronta guarigione, e che possa tornare presto in campo”. Lo dichiarano i capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "Esprimo il mio più profondo riconoscimento alla Brigata Sassari per il coraggio, la dedizione e l’alto senso del dovere dimostrato durante tutta la missione Unifil. Ringrazio il generale Messina, con il quale sono sempre rimasta in contatto per essere costantemente informata sullo stato del contingente. I nostri soldati hanno affrontato sfide complesse e delicate, portando avanti il nome dell’Italia con grande professionalità. Il loro impegno ha garantito la stabilità in una regione così fragile, e sono fiera di come abbiano rappresentato la nostra Nazione". Lo ha affermato la deputata di Fratelli d'Italia Barbara Polo, componente della commissione Difesa, al rientro del contingente della Brigata Sassari.
"Da sarda, -ha aggiunto- non posso che essere estremamente orgogliosa nel vedere i miei concittadini impegnati con tanto valore nelle operazioni internazionali. La Brigata Sassari è il fiore all’occhiello del nostro esercito, una realtà che continua a distinguersi per preparazione e coraggio”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "Ci mancavano i sedicenti comitati civici che spalleggiano gli occupanti abusivi di immobili a rendere sempre più invivibile il quartiere Esquilino, uno dei più belli di Roma da tempo in mano ad immigrati clandestini e bande criminali. Ne ha fatto le spese un bravo giornalista come Luca Telese aggredito per aver difeso i presidi di legalità che dopo le denunce della Lega le istituzioni stanno predisponendo. Telese chiamato ad un’assemblea pubblica da un sedicente Polo Civico ha avuto l'ardire di affermare che cancellate di protezione dei luoghi di socialità non sono poi da demonizzare. Per difendere la possibilità di vivere in pace e nella legalità all'Esquilino di Roma, come in tutte le periferie d'Italia, è necessario che venga subito definitivamente approvato il ddl sicurezza”. Lo afferma il deputato della Lega ed ex magistrato Simonetta Matone.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - “Nella loro foga alla ricerca del complotto, di qualcuno su cui scaricare le proprie responsabilità, di uno spauracchio a cui assegnare colpe per nascondere le inadeguatezze del governo Meloni, i colleghi di Fratelli d’Italia hanno nuovamente toccato inesplorate vette di contraddizione. L’ultimo attacco frontale è stato riservato a Gimbe e al suo presidente Cartabellotta, colpevole di aver detto con dati inequivocabili che il decreto dell’Esecutivo sulle liste d’attesa è fermo al palo e che solo uno dei sei decreti attuativi è stato già approvato". Lo afferma Andrea Quartini, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Affari sociali della Camera e coordinatore del Comitato politico salute e inclusione sociale del M5S.
"Oltre a usare parole estremamente gravi nei confronti di chi porta avanti con serietà e professionalità un preziosissimo lavoro scientifico a tutela della sanità, il senatore Zaffini -aggiunge l'esponente pentastellato- ha però di fatto confermato i ritardi denunciati da Cartabellotta, sebbene secondo lui siano in realtà tempi record. Una contraddizione decisamente bizzarra. E nel frattempo, i medici di medicina generale operano come meglio credono e la proposta di Forza Italia in merito è ancora ben lontana dal concretizzarsi".
"Al presidente Cartabellotta -conclude Quartini- va tutta la mia solidarietà, visto che ultimamente è stato identificato come avversario politico, alla stregua di una forza di opposizione, come persino Bruno Vespa aveva avuto l’indecenza di dire. Questo attacco scomposto, in ogni caso, non fa che confermare la linea di questa maggioranza: è sempre colpa degli altri. Dai magistrati, a coloro che distribuiscono la benzina, fino a Gimbe”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "Il nemico del giorno del governo è la Fondazione Gimbe e in particolare il suo presidente Nino Cartabellotta, accusato da esponenti di maggioranza di essere un bugiardo che falsifica i dati perché ‘cavalier servente’ e comunista. Affermazioni di una gravità inaudita contro un organismo indipendente e autorevole come Gimbe, che fa un grande lavoro di raccolta e verifica dei dati sanitari. La colpa di Cartabellotta? Aver fatto notare che a sei mesi dall’approvazione del decreto liste d’attesa mancano ancora cinque dei sei decreti attuativi, cosa tra l’altro confermata dalla stessa maggioranza". Lo afferma Mariolina Castellone, senatrice M5S e vicepresidente del Senato.
"Ancora una volta, questa destra cerca di trasferire su altri le colpe della propria incapacità e si produce in un costante bullismo contro professionisti che fanno il proprio lavoro, cercando di intimorirli. Per fortuna -conclude l'esponente pentastellata- ci sono i numeri a parlare e a smentire la propaganda di governo. E ci siamo noi a tutelare le voci libere e indipendenti”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - “Quello delle liste di attesa è un tema che riguarda non solo la salute ma anche la dignità della persona. Un tema che richiede senso di responsabilità e che non riscontro nelle dichiarazioni sparate a raffica da esponenti di Pd, 5 stelle e sinistra. Gli stessi che ci hanno consegnato un Servizio sanitario nazionale allo sfascio e per il quale ci stiamo adoperando per rimetterlo in sesto. Il collega Cartabellotta e la Fondazione Gimbe meritano rispetto, in quanto sono giustificati per la mancata conoscenza del lavoro che il Governo ha messo in campo sui decreti attuativi. Non posso al contrario giustificare i colleghi senatori che siedono nella commissione Sanità del Senato presieduta dal presidente Zaffini o i presidenti di Regione che prendono parte alla Conferenza Stato-Regioni". Lo afferma il senatore Ignazio Zullo, capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Sanità in Senato.
"Se non sanno -aggiunge- devo purtroppo arguire che dormono mentre se, come penso, sanno e attaccano il presidente Zaffini, che ha solo voluto puntualizzare il lavoro del Governo in risposta alle valutazioni della Fondazione Gimbe, è grave perché si tratta di un comportamento in grave mala fede. Si può anche non conoscere quanto si stia facendo sul tema, ma il senso di responsabilità vuole che prima di sparare a salve ci si informi e ci si documenti . In questo modo si prenderebbe facilmente atto che quanto annunciato dalla Fondazione Gimbe non è proprio puntuale perché -e lo ha spiegato bene il presidente Zaffini- la situazione riguardo ai decreti attuativi è la seguente: Criteri di funzionamento della piattaforma nazionale e regionali delle liste d’attesa: Il decreto è stato trasmesso alla Conferenza Stato-Regioni. In attesa del parere della Conferenza Stato Regioni alla quale è stato inviato il 13 settembre 2024".
"Funzionamento della piattaforma nazionale di monitoraggio in coerenza con il modello di classificazione e stratificazione della popolazione, risulta ‘fatto’. Poteri sostitutivi del ministero della Salute in caso di inottemperanza delle Regioni e il rispetto agli obiettivi della legge: decreto trasmesso in Conferenza Stato-Regioni il 6 novembre 2024. Linee di indirizzo per l’attivazione dei sistemi di disdetta da parte dei Cup: il decreto è in fase di definizione da attuare con il Piano nazionale delle liste d’attesa in lavorazione predisposto dalla Direzione generale della Programmazione sanitaria già condiviso con Regioni e Mef. Metodologia per la definizione del fabbisogno di personale del Ssn (superamento tetti di spesa): il decreto è in via di ultimazione. Il Piano di azione per rafforzare i servizi sanitari e sociosanitari (nelle Regioni del Sud destinatarie dei fondi del Piano nazionale Equità e salute): decreto trasmesso alla conferenza Stato-Regioni il giorno 8 gennaio 2025".
"In questo confronto tra Zaffini e i nostri avversari politici -conclude Zullo- si può cogliere la differenza tra noi e loro: noi lavoriamo per mettere riparo agli sfasci che ci hanno lasciato in eredità, loro non sanno andare oltre l’irresponsabile e deleteria polemica sterile, dannosa dell’immagine del nostro Servizio sanitario nazionale”.