Vestiti fradici, cessi intasati, cellulari scarichi, una sola cisterna per bere. Reportage de il Fatto Quotidiano nel campo profughi dove non ci sono né acqua né cibo e bisogna stare in fila per ore prima di salire su un pullman per raggiungere l'Ue
Sotto le stelle di Opatovac sono diventato un altro. Mi chiamo Aziz al Mazri, afghano, nato a Kabul il 1° gennaio 1973, non ho documenti e soprattutto: sono una pecora. L’esodo s’è trasformato in transumanza. Siamo migliaia di pecore rinchiuse in questo recinto, che è un carcere transitorio a tutti gli effetti, circondati da cani pastore che indossano la divisa antisommossa e chiariscono, sin dal primo istante, la legge che governa il campo: se resti nel gregge, se non crei problemi, ti sorridono; se esci dal gregge ti ringhiano addosso; se è proprio necessario – è successo ieri – ti menano. Entrare nel campo di Opatovac è l’unico modo per proseguire il viaggio con i profughi: da qui ci smistano, ci raccolgono all’uscita del centro, ci portano via dentro pullman organizzati dal governo croato, ma non sappiamo dove. Tra noi s’immagina: c’è chi dice Austria, chi Slovenia, chi Ungheria.
Entro nel campo alle 10 e mezza della sera, dopo una coda di 3 ore, prima in fila per uno, poi in fila per due. “Two lines. Two lines”, ripete il poliziotto croato. È gentile ed è stremato dalla stanchezza, come tutti i poliziotti croati che ho incontrato, ma quando il ragazzo accanto a me sfora la coda e si spinge più avanti, per farci capire che non scherza, lo rispedisce all’ultimo posto per ricominciare tutto. “Pet”, dice l’agente all’ingresso, che significa 5, così in cinque entriamo nel campo e sediamo su una panca. Sono all’ultima fila. Le panche sono 15. Siedo su ognuna di esse, le scalo una alla volta, finché non è il mio turno. “Pet”, dice l’ennesimo poliziotto, e in 5 possiamo finalmente entrare in una grande tenda militare. “Documenti?”, mi chiedono. “No document”, rispondo. Mi indirizza a un poliziotto che si occupa di quelli come me. “Da dove vieni?”. “Afghanistan”. “Nome?”. “Aziz al Mazri”. Ho scelto di essere afghano perché la mia lingua è il farsi e la probabilità di trovare un interprete è bassissima. Il poliziotto scrive il mio nome su un foglio che poi passa a un altro agente: lo appoggiano sotto il mio mento e mi fotografano. “Puoi andare”. Mi indirizzano verso sinistra, tra i campi e le tende militari, che son già piene. Cerco un bagno, come tutti in questo campo è pieno di merda che galleggia nell’urina fino all’orlo.
Torno nel mio sacco a pelo, tra falò accesi un po’ ovunque, mentre centinaia di persone sono già in coda, ammassate in fondo al viale: il loro vociare riecheggia per tutto il campo – “al jebab, al jebab”, “ragazzi, ragazzi”, è il richiamo che mi accompagna ormai da giorni.
Risveglio tra i falò
La litania dell’altoparlante: “Seduti e abbiate pazienza”
È il grido di chi chiama il suo gruppo per avvertirlo che è in vista il pullman o il treno per raggiungere la prossima a tappa. “Al jebab, al jebab”: le stesse parole che mi hanno svegliato questa mattina, alla stazione di Tovarnik, quando è iniziata la lunga giornata che mi ha portato qui.
“Al jebaaab, al jebaaaab!” è l’urlo che mi scuote alle 5 del mattino. Siamo migliaia, rincoglioniti dal freddo della notte, dalla stanchezza, dalla fame. Non c’è un posto dove potersi lavare: ho gli stessi vestiti da tre giorni. Infilo le scarpe, sono bagnate per l’umidità, ma scopro di avere un problema peggiore: ho perso il portafogli, per fortuna non il passaporto. Mi restano 15 euro che avevo lasciato in un’altra tasca. Dai binari il megafono della polizia ogni 10 minuti ripete la stessa litania: “Please sit down and wait your turn, it will be slowly, be patient”, “sedete e aspettate il vostro turno, si va lentamente, abbiate pazienza”. Sì, ma dove si va? Nessuno sa dirlo. Chiamo Gilles, il volontario belga che ho conosciuto la notte prima, sperando che mi porti in paese, per cercare un money transfert e farmi spedire un po’ di soldi. Mentre lo aspetto vedo i binari svuotarsi davanti ai miei occhi. Ma non è finita: Gilles mi spiega che altre mille persone stanno arrivando a Sid, confine serbo, per passare in Croazia. È un esodo senza fine. Ho appena deciso di trascorrere la giornata con Gilles e gli altri volontari – è quasi mezzogiorno – quando sento urlare il mio nome: è Misko, il tassista serbo che da Sid, ieri sera, mi ha accompagnato a Tovarnik. È venuto dalla Serbia a cercarmi, qui, per restituirmi il portafogli. Non ho parole. “Controlla – mi dice – c’è tutto?”. Lo abbraccio. Gilles mi chiama, dobbiamo andare. Con noi c’è Quitab, un ragazzo siriano arrivato in Germania 9 mesi fa: è stato torturato dal regime di Assad, gli hanno spezzato le dita, ma è riuscito a fuggire, ha chiesto asilo politico, ora ha un passaporto tedesco, è qui per dare assistenza. Poi c’è Sara, una ragazza algerina, bruna, piccola, sembra porti il sole ovunque vada. Indossa il hijab, quando ci mostra il suo doppio passaporto – algerino e ceco – copre la foto: non dobbiamo guardarle i capelli.
Quitab e Sara
Il caso e il colpo di fulmine tra i volontari di Sos konvoi
Quitab e Sara si conoscono oggi, per la prima volta, come molti ragazzi arrivati qui con Sos konvoi, che non è un’organizzazione, ma una meravigliosa manifestazione di anarchia. Non c’è un capo. Le decisioni sono condivise. Zero burocrazia. Ciascuno assume la propria responsabilità. Il cento per cento dei soldi raccolti sono utilizzati per i rifugiati.
Al varco con la Serbia, però, Quitab deve scendere: ha il passaporto valido, ma non ha il visto. Siamo nella no man’s land, duecento metri che non sono né Serbia né Croazia, il letto di un fiume di gente che straripa e s’ingrossa di ora in ora, attraversando la stradina che taglia in due un campo di granturco. Venticinque anni fa, prima che la Jugoslavia implodesse, questa frontiera non esisteva. I confini nascono nei posti più strani: qui è cresciuta attorno a un piccolo cimitero. E intorno al cimitero si accalcano in 3 mila. Molti sono cristiani, portano un rosario al collo, i bambini sono centinaia. Hanno fame, freddo, c’è chi ha bisogno di un medico. La Croce Rossa è dall’altro lato della strada, per raggiungerli bisogna passare su un tappeto umano, intorno non vedo nessuno dell’Unhcr, ma a un lato della strada trovo le loro coperte.
Sono settimane che in questo tratto di strada passano decine di migliaia di profughi: perché non ci sono medici? A che serve la Croce Rossa, qui, in questo modo? Che sta facendo – qui, in questo momento – l’Unhcr? I ragazzi di Sos konvoi nel frattempo realizzano il miracolo: decine di pentoloni di cibo caldo – riso con fagioli e mais – per migliaia di persone. Coinvolgono una decina di profughi, che ordinano le file, mediano e fanno da interpreti, per evitare che si creino risse al passaggio di una coperta o un piatto di pasta.
Quitab mi manda un messaggio su Whatsapp, per chiedermi cosa intendiamo fare, io passo il mio telefono a Sara, le dico di rispondergli perché non conosco i loro programmi, ma quando il telefono è nelle sue mani Quitab inizia a digitare: “Antonio, dov’è Sara? Sono innamorato di lei, non ho mai provato un sentimento così, voglio chiederle di sposarmi…”. Io le tolgo il telefono dalle mani. Sara sorride: “Forse Dio voleva che lo sapessi così…”.
Io e Gilles lasciamo la no man’s land, raggiungiamo Quitab a Opatovac, dove questo ammasso di gente sta per essere raccolto nel centro di smistamento. Sara resta al confine. Mi incolonno per entrare nel centro di smistamento: 3 ore dopo sono diventato Aziz. Anche questa notte l’umidità sale dal terreno gelandomi le ossa. Alle 6 sono già sveglio ma non ho niente da mangiare. Un ragazzo mi offre dei biscotti da intingere in un barattolo di marmellata. Il telefono è scarico. Non posso più comunicare con nessuno, se non con l’iPad, che uso di nascosto e con il contagocce, perché ha solo il 5% di batteria. Nessuno qui dentro può più comunicare con nessuno. Una sensazione opprimente.
Libertà a tappe
Tre ore per fare un metro nella fila verso l’uscita
Alle 10 del mattino mi metto in fila per lasciare il campo. Il governo ungherese accetta che i profughi passino sul suo territorio a una sola condizione: il nostro numero giornaliero deve essere definito, non un profugo in più, quindi dobbiamo aspettare che ciascun pullman rientri vuoto, per caricarci e portarci via. Siamo in una catena di montaggio. All’una, dopo 3 ore di coda, ho percorso appena un metro verso l’uscita. Davanti a me almeno mille persone. E se ti trattano da bestia, ti comporti da bestia, così arriva la prima rissa, poi la seconda, poi la terza. Una donna sviene davanti ai miei occhi. Dopo di lei un ragazzo. Non abbiamo né acqua né cibo. L’acqua in realtà ci sarebbe, basta andare all’autobotte in fondo al viale, ma nessuno, dopo ore di coda sotto il sole, è così pazzo da ricominciare tutto da capo. Passa un signore con la mostrina dell’Unhcr: “Ha dell’acqua? Abbiamo sete”, gli chiede un ragazzo. “Non ne abbiamo”, è la risposta. “Ma allora se non avete neanche l’acqua cosa cazzo ci state a fare qui?”, gli urla il ragazzo. Dopo un’ora siamo ancora fermi allo stesso posto. E inizia la protesta: “Non siamo animali”, scrivono dei ragazzi sui tappetini che hanno usato per dormire, poi si alza un unico urlo: “Maffi Mai, Maffi mai”, “siamo senz’acqua, siamo senz’acqua”. La tensione è sempre più alta. Siamo schiacciati gli uni sugli altri.
Finalmente arriva un po’ d’acqua e di cibo: sono i ragazzi di Sos konvoi, la polizia li ha fatti entrare, vedo Quitab che distribuisce bottiglie e fette di pane. Siamo stremati dall’attesa. L’interprete con il megafono prova a tranquillizzarci: “Partirete tutti entro questa sera. State tranquilli. Nessuno resterà qui dentro. Se volete potete chiedere asilo politico qui in Croazia, ma nessuno di voi vuol restare, quindi stiamo facendo il possibile per farvi partire”. Il ragazzo accanto a me chiede: “Sei siriano?”. “No, afghano”, rispondo in inglese. “Allora non hai speranze”, continua ridendo, “ti rimandano indietro. Passeranno solo i siriani”. Non riesco a crederci. Intanto il campo continua a funzionare come una catena di montaggio, dal lato destro continua ad arrivare gente, nuovi ospiti del centro, destinati a riempire il vuoto che stiamo lasciando.
Finalmente arrivano 3 pullman. Ennesima rissa. Qui dentro siamo pronti dividere qualsiasi cosa, dall’ultimo bicchiere d’acqua all’ultimo biscotto, dall’ultima sigaretta all’ultima coperta, tranne il posto in questa maledetta coda che dura ormai da 8 ore. Il campo alle mie spalle invece s’è già riempito di altre migliaia di persone. La polizia ci fa sedere. Il signore dell’Unhcr passa con una specie di cronometro, spinge un pulsante: ci sta contando: “Siete fortunati – ci dice – voi riuscirete a partire entro stanotte”. A mezzanotte risuona il solito grido: “Al jebaaab, al jebaaab”. Possiamo partire. Ma non sappiamo per dove.
Da il Fatto Quotidiano di giovedì 1 ottobre 2015