Taranto – Ci sono festival che in pochi anni si impongono a livello nazionale, ci sono festival dove si può ri-trovare lo scheletro e la colonna vertebrale del perché si fa teatro e del perché lo si va (anche compulsivamente come chi è da questa parte) a vedere, ci sono festival che uniscono visioni e respiro, che fanno incontrare e portano alla luce, in superficie. Lo “Start Up”, organizzato dal Crest che da sempre lavora al Teatro Tatà nel quartiere Tamburi (la sua recinzione confina con il mostro dell’Ilva), ha quattro anni di resistenza sul territorio e di apertura, e già rischia di morire, cancellato, soppresso. Le cose buone in Italia finiscono sempre al macero, schiacciate da altre opportunità “politiche”, le situazioni che funzionano devono essere affossate, corrose, sepolte.
Dalla tre giorni di teatro (24-26 settembre) ci portiamo a casa una sensazione di densità, di piece mai banali e scelte con cura e partecipazione, di un fermento giovane e vivo che abbellisce questi fumi rosa e viola che sporcano l’aria e i polmoni di chi li respira da anni. Qui il fare teatro ha un senso, è una solida certezza, impianto e ottimismo sul futuro del mondo, da parte di chi crede e lotta, anche grazie alle parole (che non si perdono mai inutilmente e non “volant”), per un domani almeno più consapevole.
Abbiamo scelto di raccontarvi tre spettacoli molto diversi tra di loro: l’immaginazione e la fantasia di “Cinema Paradiso”, il mondo di celluloide che innesca i sogni dei bambini di tutte le età, “Amleto fx” dei Vico Quarto Mazzini (hanno idee da vendere!), uno Shakespeare contemporaneo in cui, non vi scandalizzerete spero, il principe di Elsinor chatta e spedisce sms e mail, come farebbe qualunque ragazzo d’oggi, mantenendo il rigore sull’inquietudine, sul verme che lo corrode disperatamente dall’interno, e il “Gramsci” di Francesco Niccolini, il volto quotidiano, terreno di quello che fu il P.C.I, l’uomo, finalmente, al posto del personaggio da spot per riempirsi la bocca.
In “Cinema Paradiso”, che prende le mosse dalla pellicola (“Nuovo...” di Tornatore) è un crogiolo di emozioni, anche facili, semplici, ma che vanno a toccare quella parte nascosta, e che una volta adulti tendiamo sempre più a mettere come polvere sotto il tappeto vergognandoci, intima, vera sotto la scorza dell’oggi. Michelangelo Campanale riesce a far fiumare le lacrime copiose alla platea nel continuo rapporto tra un bambino ed un uomo adulto che, divisi dal telo dove si proiettano le immagini, che faceva da filtro, da placenta e da imene, che permetteva osmosi (come ne “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen) e rottura e frazione e frattura, tra la realtà, il passato, il sogno e quella voglia di tornare a credere nei sogni, nelle stelle, nelle grandi avventure. Il bimbo (l’eccezionale Giuseppe Di Puppo) subito salta sui braccioli delle poltroncine, la prima citazione (Benigni alla consegna degli Oscar) di una serie interminabile in una lunga, divertentissima, carovana-carosello di caccia al rimando, alla scoperta dei film, delle scene che ci hanno toccato, commosso, fatto sentire vivi: dai dettagli, il gesto di De Niro in “Terapia e pallottole” delle due dita come a dire “ti controllo”, al “sei tutto chiacchiere e distintivo”, Marylin e Forrest Gump, Topolino. Entrano in gioco Mary Poppins e Spiderman, le gemelline di Shining, con pennellate di The ring o zombie o L’Esorcista, i Blues Brothers, in una sorpresa continua (costumi, luci e musiche curatissime), come dovrebbe essere al cinema, in teatro, o nella vita, fino ad E.T. Dov’è il bambino che eravamo? Per ribadire la forza eterna del cinema rispetto alla volatilità del teatro, sua forza e suo limite.
Carne, sangue, sudore, disperazione stanno alla base, come colonne portanti, dell’“Amleto fx” dei Vico Quarto Mazzini, una potenza incarnata da Gabriele Paolocà che si fa viscere e riesce, anche in un piano di effetti e tecnologie, a rendere vicino e terreno il dramma shakespeariano su di un filo emozional-teatrale ma anche sarcastico-goliardico che, come su un’altalena da montagne russe, inevitabilmente spiazza con intelligenza, ironia, trovate. Paolocà è un sole nero folgorante, tra Amy Winehouse e Kurt Cobain (citati alcuni loro brani), ha la scimmia che lo rode e corrode dall’interno, è un vulcano imprevedibile in perenne ebollizione, è maledetto: è un piacere guardarlo, sfatto alla Haber, cattivo come Dennis Rodman, puk folle, slacciato e sfacciato, marcio come McEnroe, un Cristo talentuoso e autodistruttivo alla Philip Seymour Hoffman, che prende a morsi la scena e se la sbrana, che il teatro non salverà.
Interessante, e pessimista, è l’analisi dell’oggi che Francesco Niccolini fa prendendo a bandiera Antonio Gramsci, tratteggiandone i diari, scegliendo le parti non politiche, ma quelle familiari, smitizzando il suo volto con i riccioli e gli occhialetti che lo hanno fatto diventare un Che Guevara da maglietta. Un uomo solo e fragile “Antonio detto Nino”, tenuto per venti anni in carcere, malato, un piccolo uomo. Fabrizio Saccomanno (salutato vigorosamente a scena aperta da una platea calda e visibilmente colpita) è riuscito, nella prima parte in italiano e immobile su una sedia (più passava il tempo più s’incarogniva la figura, si piegava il braccio, la schiena, un piede nella disgrazia della malattia), poi nella seconda con il suo salentino pungente a tratteggiare una figura difficile. Era facile precipitare nello stereotipo ma né la scrittura di Niccolini né l’interpretazione di Saccomanno non sono mai caduti in tentazione. Due filastrocche sono il perno di questo felice testo: nella prima parte “comunista” e di ideali si racconta di un topo che insieme ad una ciurma di animali, piante e Natura riesce ad aiutare aiutandosi, nella seconda invece, la favola del poveretto sprofondato in un pozzo, l’individualismo ha preso il sopravvento. L’oggi non è una favola, oggi siamo tutti chiusi nei nostri gusci, e non c’è comunismo che tenga, ma solo salvezza personale. Però, se nessun uomo è un’isola e se nessuno si salva da solo, la fine di questa scelta contemporanea non può essere la felicità.