Niente elezioni. Solo erezioni. Come dimostra il Pil, che si sta finalmente rialzando. L’Italia riparte, è la volta buona. Tutto il resto passa in secondo piano, uniti come siamo a celebrare una crescita acquisita di +0,7%, dopo che – ricordiamolo – negli ultimi sette anni il Pil aveva complessivamente “acquisito” un bel -9,0% (si legge nove). Ma che c’entra, in fondo? L’importante è ricominciare, invertire la tendenza: lo dicono anche Adriano Pappalardo e Capitan Harlock, che farebbero persino più share di Rambo. Qualcuno a RAI 3 non si è accorto che Renzi è il presidente del Consiglio, ma per fortuna all’Istat se ne sono accorti, eccome. E allora giù a concertare le statistiche con il ministero del Lavoro (che se ogni tanto sbaglia una somma in Excel, il peggio che può accadere è sparare allegramente qualche cifra ad minchiam sul numero di occupati), giù di ricalcolo delle basi-dati e di tutto quanto serve per la narrazione delle magnifiche sorti e progressive di un paese in cui, a pagare per lo stato di necrosi dell’etica pubblica sarà comunque sempre e soltanto… l’elicotterista.
E allora, in alto i calici per brindare al trionfale piuzerovirgolasette, augusteo e imperituro sigillo gigliato su questa fulgida ripresa. E’ questa la crescita che ci serve, come no. Quella dei frigoriferi, delle lavatrici e dei televisori venduti nei centri commerciali, quella delle infrastrutture e degli investimenti industriali, quella dei mutui residenziali e del credito al consumo, quella delle code ai tornelli dell’Expo e dei ristoranti pieni, quella dei nuovi inceneritori e delle trivellazioni in mare, ma soprattutto la più indispensabile di tutte, quella delle immatricolazioni di automobili (proprio qui, nel secondo Paese in Europa per numero di veicoli ogni mille abitanti).
Merci, prodotti, servizi. In una parola: cose. E’ di nuove cose di cui abbiamo disperato bisogno, infatti. Abbiamo bisogno di consumare, per poi sprecare, per poi lavorare, per produrre e per consumare di nuovo, daccapo: l’astutissimo circolo vizioso concepito oltre due secoli fa per alimentare la nostra cronica insoddisfazione. E chi se ne frega dei suoi effetti collaterali, in fondo? L’importante è l’erezione del Pil, puntualmente sostenuta dai cinguettii del premier, perfetti vasodilatatori per i tessuti spugnosi della nostra propensione al consumo. Consumo ergo sum.
Chi se ne frega poi se il modello a cui aderiamo con cieca fiducia è lo stesso, a trazione turboliberista che, per esempio, ha inasprito le iniquità sociali come mai in precedenza? Mica ci riguarda direttamente se tra il 2007 e il 2014 il numero di super-ricchi in tutto il pianeta è mediamente cresciuto del +9,9% all’anno (l’Europa più della media mondiale, l’Italia più della media europea). Mica impatta direttamente sulle nostre vite il fatto che nel 2016 la ricchezza del più ricco 1% di popolazione supererà quella del restante 99%: sono tutte anticaglie ideologiche per impenitenti rosiconi e nostalgici di quella visione classista della società che, fortunatamente, dopo il 1989 è definitivamente tramontata.
Chi se ne frega se, grazie a questo modello fondato sul consumismo ipertrofico e sull’indebitamento cronico della popolazione, dagli anni Settanta ad oggi il consumo di suolo in Italia ha cancellato oltre il 30% di superficie agricola utilizzabile?
Chi se ne frega se ormai in tutta Italia bastano due gocce di pioggia oltre la media stagionale, per mettere sottosopra intere città? Il dissesto idrogeologico non sarà mica riconducibile al fatto che se, nell’anno dell’unità d’Italia, il 70% dei lavoratori italiani si dedicava all’agricoltura e solo il 12% all’industria, oggi sui campi ci sono meno del 4% di occupati e il 70% si dedica invece ai cosiddetti “servizi”?
Chi se ne frega se l’impronta ecologica delle attività umane è in continua espansione in tutto il mondo, ed è giunta quest’anno a 1,6 (l’Europa più della media mondiale, l’Italia più della media europea)?
Chi se ne frega se dal 2000 ad oggi nei Paesi Ocse (le cosiddette economie “sviluppate”) l’incremento del consumo di farmaci psicotropi e antidepressivi è stato mediamente del +5,5% annuo (+7,3% in Italia)?
Chi se ne frega se ad ogni serata che faccio per parlare di come uscire da questo mondo del lavoro perverso, in cui l’ubbidienza conta più del merito, l’arrivismo più della soddisfazione e il doppiogiochismo più della trasparenza, da decine che inizialmente erano, i partecipanti stanno ora diventando centinaia?
Ma sì: freghiamocene bellamente del significato reazionario (e anche un po’ “gufesco”, diciamolo…) di questi numeri, di fronte al roboante piuzerovirgolasette di un indicatore che, per misurare la salute di un’economia, ha la stessa efficacia che avrebbe un metro per misurare la pressione.
Perché è la crescita che vogliono. Ed è la crescita che otterranno. Di che cosa, però, ancora neppure lo immaginano…