Ha fatto il giro del mondo la notizia di Monsignor Krysztof Charamsa, teologo e ufficiale della Congregazione per la dottrina della fede, che ha dichiarato la propria omosessualità (con tanto di presentazione del suo compagno) e denunciando la “omofobia paranoica” che ancora oggi domina il Santo Uffizio e il Vaticano. La reazione della Santa Sede è stata immediata: abbandono di tutti gli incarichi, incluso l’insegnamento.
Molto dure sono state oggi le parole del Cardinale Camillo Ruini: “Provo più pena che sorpresa“. Parole che però non hanno scoraggiato il diretto interessato, che si è detto pronto a intraprendere la professione di avvocato e ha già pronto un libro in cui racconterà le sofferente patite durante il suo lavoro in Vaticano. Il che ci fa pensare che neppure lui, così come nessun altra persona ragionevolmente informata di come funzionano le cose, credo, si sarebbe aspettato reazioni diverse.
Eppure, il punto è proprio questo.
La storia di Charasma ci parla di umanità vissuta, di un amore nei confronti di una persona dello stesso sesso come ne nascono ed esistono milioni in Italia e nel mondo, all’interno dell’istituzione più conservatrice dell’età contemporanea che ha fatto della lotta contro le persone omosessuali e contro il riconoscimento e la tutela di qualsivoglia diritto delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) il proprio, quasi personale ed ormai esclusivo, cavallo di battaglia.
Come nota il vescovo episcopale emerito Gene Robinson in questo meraviglioso pezzo, per la Chiesa cattolica l’omosessualità rimane “un’inclinazione oggettivamente disordinata“, e gli atti omosessuali degli atti “intrinsecamente disordinati”. “Intrinsecamente significa che non c’è nulla che tu possa fare“, spiega Robinson, e “disordinata significa che la natura con te ha fatto un grande sbaglio, che sei decisamente difettoso, e tutto ciò che puoi aspettarti dalla Chiesa è la pietà, ma ciò che riceverai è probabilmente solo condanna ed esclusione“.
La questione che dobbiamo porci tutti oggi è, se un cattolico si possa aspettare o meno dalla Chiesa un atteggiamento diverso dall’ostracismo, dalla condanna e dall’esclusione. Che non si limiti a provare pena, ma piuttosto si impegni a una riflessione importante. Che non gridi sempre allo scandalo, bensì si apra all’ascolto, disponibile e consapevole che ciò che ascolterà potrebbe meravigliare profondamente. Non ho dubbi al riguardo: la risposta a questa domanda è e deve necessariamente essere sì. Ci si può, e anzi ci si deve, attendere che la Chiesa non si appiattisca sul dogma ma ragioni in base al vissuto delle persone.
Sono troppo ingenuo? Forse. Ma due cose non riesco a spiegarmi. La prima è come possa un’istituzione così tentacolarmente articolata nella società civile a ignorare completamente quello che accade all’interno della società stessa. Chi affronta queste vicende ai vertici vaticani, da Lombardi a Ruini e tanti altri, non è gente così sprovveduta da non capire che ogni giorno che passa le posizioni della Chiesa diventano, agli occhi della società, sempre meno accettabili.
La seconda è perché, anziché gridare sempre allo scandalo ogni volta che si pronunciano le parole “omosessualità” o “unioni gay”, non si apra invece una riflessione seria, lucida e serena – come peraltro hanno già fatto altre Chiese nel mondo – riconoscendo così il ruolo della Chiesa, per nulla accidentale e assolutamente non trascurabile, nella stigmatizzazione sociale pressoché permanente che riceve un gruppo di persone, secondo un trattamento che rispecchia non il contributo che queste persone offrono alla società, cioè non il loro essere utili agli agli altri, ma il solo fatto di essere omosessuali, e di arrivare a dirlo apertamente pagandone le amare conseguenze.
A che cosa serve, insomma, una Chiesa completamente scollata dalla società e dalle persone? A che, ma soprattutto, a chi serve?