Con questo articolo FQ Magazine inaugura una serie di contenuti dedicati all’eccellenza enogastronomica italiana. Racconteremo storie di produttori e appassionati che rappresentano una nicchia importante del made in Italy. Li abbiamo selezionati perché pensiamo che la tutela delle piccole produzioni rappresenti una via possibile per il rilancio del nostro Paese.
Peter Gomez
A Marina di Bibbona, nel cuore della costa etrusca, a due passi dalle cantine rinomate di Bolgheri e dai cipressi “alti e schietti” del Carducci, da quasi 60 anni i Mecherini sono sinonimo di chianina. I 90 ettari dell’azienda, conquistati dopo decenni passati da mezzadri in ogni parte della Toscana, accolgono il visitatore con l’odore penetrante del fieno insilato, che fermenta coperto da nilon scuro lungo il viale che porta alle stalle e, da lì, ai recinti all’aperto, dove le grandi fattrici bianche da 10 quintali e i loro vitellini sembrano dar vita a una tela dei Macchiaioli.
Samanta: “Gli italiani non vogliono fare questo mestiere”
A badare ai 140 capi e ai campi, coltivati a foraggio per le bestie e a ortaggi per il negozio estivo, sono sempre quattro Mecherini: Fosco e la moglie Rosaria, 69 anni lui e 61 lei, e i loro due figli Samanta e Mirco, 38 e 33 anni. Con loro, due ragazzi stranieri. “Un romeno e un senegalese. Gli italiani – dice a FQ Magazine Samanta – non vogliono fare questo lavoro. Complice la disoccupazione, alcuni vengono qua in cerca di lavoro, ma non chiedono nemmeno cosa dovrebbero fare, ci chiedono soltanto quanto prenderebbero, quante ore dovrebbero lavorare e se il sabato e la domenica possono fare festa. Ma nei lavori di campagna non ci sono giorni liberi, né è un lavoro in cui puoi fare le tue 6 ore e tornare a casa: se c’è bisogno, ne fai di più. Vanno via delusi, perché non è quello che si aspettavano. Lavorare la terra è ancora un mestiere disprezzato dagli italiani. A scuola mi chiamavano “contadina”, per prendermi in giro. Ma io sono orgogliosa di esserlo”.
Un datore di lavoro onnipotente e imprevedibile
“L’orto vuol vedere l’uomo morto. Sotto la neve ci sta il pane, sotto il ghiaccio ci sta la fame”. Mentre prepara il pranzo, Rosaria mi elenca i detti della campagna. Il figlio aggiunge: “Son sempre animali: oggi si ride, domani si piange”. La fatica e l’amarezza trasudano anche dai proverbi, nella vita di allevatori e agricoltori. E c’è da capirlo. “Il problema è che noi abbiamo a che fare con uno solo. Quello lassù” interviene il vecchio Fosco, alludendo a un datore di lavoro che se ne frega di contratti e sindacati: il Padre Eterno. La sveglia alle cinque e mezzo, la colazione a base di pane, pomodoro e prosciutto della casa, poi il lavoro, ore e ore, sole o pioggia, in estate fino a mezzanotte. “C’è pochissimo tempo per la vita privata. Ma ho sempre voluto fare questo – spiega Samanta – anche per ripagare i miei genitori dei sacrifici che hanno fatto per noi: hanno creato qualcosa per noi figli e mi sembrava uno spregio abbandonarli e andare a fare altro”.
Mirco, domatore di tori dal cuore tenero
Tanta fatica, ma i riconoscimenti non mancano. La casa dei Mecherini ne è piena: ogni mobile è sovrastato da coppe, ogni parete sfoggia targhe. Ricordi di fiere e concorsi nazionali e internazionali in cui le chianine Mecherini sono arrivate prime. A domarle, c’è Mirco. Dietro l’aspetto duro che può avere solo uno che a 5 anni guidava le mandrie e a 13 anni separava due tori con una forca, c’è un cuore tenero. “Avevo 15 anni, lei si chiamava Innata. Da vitellina, l’avevo domata per portarla a una fiera. Ma poi mangiò un ferro e morì. Quando l’ho vista senza vita – confessa – ho pianto”. Il giovane Mecherini ha un nome per ogni vacca e le riconosce a vista senza leggere il numero spillato all’orecchio. “La sera – racconta – chiamo il toro per metterlo nel box e lui viene da solo. A fine carriera i tori vanno macellati, le gambe non gli reggono più. Quando li caricano sul camion, non voglio esserci. E quando guardo un toro per l’ultima volta, faccio sempre finta che rimanga qui”.
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