L'ultimo lavoro di Gilmour, per quanto attinga molto dal suo passato e sembri funzionare bene dal vivo, appare interessante non solo per la varietà di generi inseriti ma anche per gli argomenti affrontati, con testi a tratti laceranti
Un gigantesco schermo circolare troneggia sul palco della Royal Albert Hall, rubando la scena al magnifico organo, un tempo il più grande al mondo. Lo schermo circolare è uno dei marchi di fabbrica dei Pink Floyd, così come lo sono la voce e il tocco chitarristico di David Gilmour che a distanza di quasi dieci anni dal suo ultimo disco solistico, torna in scena con un nuovo lavoro, “Rattle That Lock”, e conseguente tour, andato sold out.
Il chitarrista porta con se i suoi fidati compagni di viaggio – Manzanera, Pratt, Carin e DiStanislao – ai quali si aggiungono il tastierista Kevin McAlea, Joao Mello al sax e Bryan Chambers e Louise Marshall ai cori; ma la prima data londinese riserva una sorpresa: Graham Nash e David Crosby saliranno sul palco per accompagnare Gilmour nei brani “A Boat Lies Waiting”, “On An Island” e “Comfortably Numb”.
Con il traguardo dei settant’anni dietro l’angolo e dopo aver scritto con i Pink Floyd pagine di storia della musica imprescindibili, David Gilmour continua a mostrare un’enorme devozione verso il proprio lavoro, che è poi la stessa devozione che ha il pubblico nei suoi confronti e che lui ripaga con una scaletta dove il passato si mescola al presente. Ecco quindi che “Wish You Were Here” viene incastonata tra la meravigliosa “Faces Of Stone” e una versione struggente di “A Boat Lies Waiting”, facendo così confluire nel brano più famoso dei Pink Floyd due assenze: quella della madre di Gilmour, “cantata” in “Faces Of Stone” (il brano più personale della carriera del chitarrista) e quella dell’amico e compagno di irripetibili intese musicali Richard Wright, omaggiato in “A Boat Lies Waiting” – e probabilmente anche nella successiva “The Blue” – brano che nella sua struttura ciclica di base e nel costante richiamo al “flusso e riflusso” della marea rimanda alla mente “Then I Close My Eyes”.
La voce a tratti fatica ad arrivare alle note più alte, come è naturale che sia, ma questo anziché rompere la perfezione di un brano, sembra arricchirne il carico emotivo, così come il ricorso ad una maggiore libertà di improvvisazione in molti casi dona un interessante valore aggiunto. Ci sono alcuni classici dei Pink Floyd come “Money”, “Us And Them”, “Run Like Hell” e “Sorrow”, che non venivano eseguiti dal vivo dai tempi di “Pulse” e che insieme a “Shine On You Crazy Diamond” e “Comfortably Numb” – sul cui solo di chitarra fanno la loro apparizioni le luci laser usate negli ultimi tour della band – proiettano il pubblico in un nostalgico ricordo dorato. Che sia solo il bisogno di rivivere parte dei fasti di un passato glorioso il motivo per il quale la maggior parte del pubblico ha deciso di esserci, appare riduttivo.
L’ultimo lavoro di Gilmour, per quanto attinga molto dal suo passato e sembri funzionare bene dal vivo, appare interessante non solo per la varietà di generi inseriti (dal tempo di walzer di “Faces Of Stone”, alla sinuosità jazz di “A Girl In A Yellow Dress”, passando per il rock diretto di “Rattle That Lock” e la Floydiana “In Any Tongue”, per esempio), ma anche per gli argomenti affrontati, con testi a tratti laceranti (”What I lost was an ocean / and I’m rolling right behind you / In this sad barcarolle”) e sempre in grado di viaggiare all’unisono con la musica. Non si tratta di un lavoro dei Pink Floyd e non deve essere giudicato come tale o confrontato con i lavori della band, è un disco di David Gilmour che si apre – così come il concerto – con uno strumentale nel quale il primo tocco di chitarra è un bending, quello stesso tocco che ha contribuito a rendere unico lo stile del chitarrista, quello che apre la mente dell’ascoltatore verso spazi “altri” quando la chitarra entra in “Shine On Crazy Diamond” o “Echoes”, tanto per citare due monoliti della storia della musica.
E allora quando David Gilmour torna in tour dopo quasi dieci anni, è come se un vecchio amico bussasse alla porta: la sorpresa di ritrovare quell’elegante e familiare sorriso, non può che farci arrendere ad un sentito “come on in!”.