Quando, qualche mese fa, Claudio Baglioni e Gianni Morandi hanno annunciato un “progetto comune”, in molti hanno storto il naso. A partire da coloro che li seguono da anni, magari separatamente, ne conoscono a fondo le vite e i percorsi musicali. Sembrava il tentativo (molto mediatico) di voler unire il diavolo e l’acqua santa, il giorno e la notte, lo yin e lo yang. Schivo, riservato, meticoloso e quasi ossessivo Baglioni, sempre alla ricerca dell’accordo perfetto o della rima non scontata; estroverso, esuberante, social-dipendente, “caciarone” (come direbbero a Roma) Morandi, interprete e (quasi) mai cantautore. Perché dunque, a 64 anni l’uno, a 70 l’altro, scegliere di unificare i percorsi e di mescolare i caratteri, seppure per lo spazio di un tour e forse di un disco? Tra gli addetti ai lavori si raccoglievano addirittura scommesse sulla durata di questa unione.
E invece, altro che Zio Oreste, come dice Michele Monina. Tutte le perplessità si sono sciolte come neve al sole. Non ieri, quando Rai Uno ha trasmesso in prima serata il concerto-evento di “Capitani coraggiosi”. Ma il 10 settembre, quando, con l’emozione che attanagliava le voci, i due capitani sono saliti per la prima volta sul palco del Centrale del Tennis, al Foro Italico di Roma. Quella sera chi c’era ha capito il senso dell’operazione. Che rimane sicuramente mediatica, ma che arricchisce di un tassello importante la storia della musica italiana. Perché a vederli – e ad ascoltarli – insieme, il diavolo e l’acqua santa, si comprende quanto l’uno possa offrire all’altro, quanto siano in realtà compatibili e addirittura complementari. Baglioni, col suo timbro e la sua estensione vocale, offre a Morandi il rigore del cantautore puro, la guida musicale rispetto a testi che nessuno può cantare come solo lui sa fare. E Morandi, invece, da showman qual è, merce così rara di questi tempi, garantisce lo spettacolo, il divertimento, quel non prendersi troppo sul serio che a volte manca al compagno di viaggio.
Il risultato è il 20,2 per cento di share: un evento che non solo riporta la Rai a un livello artistico da troppo tempo dimenticato (e riporta la musica, quella vera, nelle case delle persone), ma che traccia una direzione, un solco, da cui difficilmente si tornerà indietro. E se è vero che la diretta televisiva non può offrire ai telespettatori il calore che al Foro Italico si è respirato fin dalla prima di queste lunghe dodici serate (peccato per chi non c’era), è vero anche che la musica pop italiana ha bisogno di Capitani che, non più ragazzini, trovino il coraggio di rimettersi in gioco.