Uscire la sera e andare al ristorante. I ristoranti si trovano ovunque, nelle metropoli e nelle piccole città, al mare e in montagna, al nord e al sud. Ospitare un ristorante, cucinare, servire ai tavoli. Accade a Bollate. Ma non solo dentro l’Expo. Anche dall’altra parte della strada, a poche centinaia di metri, dietro i cancelli della Seconda Casa di Reclusione di Milano.
Bollate è un carcere modello, dicono tutti. Ed è vero. Non perché si faccia qualcosa di speciale, ma proprio perché là dentro si svolge una vita normale. L’istituto l’ha tirata su a partire dal 2000 la sua prima direttrice, Lucia Castellano, e oggi Massimo Parisi segue magistralmente le sue orme. Dallo scorso luglio, per non fare che un esempio di bandiera, è aperto un ristorante gestito da detenuti e capace di accomodare circa cinquanta persone a ogni pasto. Una cosa normale. Come il Consiglio d’Europa ci dice che la vita in carcere dovrebbe essere, se non per quanto strettamente attiene alle inevitabili conseguenze dell’essere reclusi.
Avere una vita sessuale non è tra queste. E giustamente il disegno di legge appena approvato dalla Camera dei Deputati delega il governo a riconoscere il “diritto all’affettività”, come si usa dire in gergo per evitare parole troppo esplicite, delle persone detenute e a disciplinare le condizioni del suo esercizio. Tra non molto dietro le sbarre potrà accadere quel che accade in ogni casa.
A Bollate è già accaduto. Nei giorni scorsi una donna è rimasta incinta. Era detenuta nella sezione femminile dell’istituto. Se qualcuno oggi se la prenderà con il modello gestionale di quel carcere e pretenderà che esso faccia dei passi indietro, porterà la responsabilità di essere stato incapace di guardare avanti. Avanti, verso la normalità.