Cultura

Sebastiano Ardita, in “Catania bene” il magistrato racconta la mafia 2.0. Che la trattativa la fa nei salotti

PAGINE NERE, libri su crimini veri italiani e no/ Dopo aver raccontato il "ricatto allo Stato", il procuratore aggiunto di Messina ripercorre la storia di Cosa nostra nella seconda città della Sicilia. E ne fa un modello per comprendere la mafia oggi. Il modello? Il boss Nitto Santapaola, in grado di frequentare sindaci e prefetti e intanto ordinare stragi e omicidi. Come quello del giornalista Pippo Fava

Cosa nostra 2.0. O meglio, la mafia “bene”. Da salotto, insomma. E’ il futuro del dopo-Riina, ma il modello viene dal passato: la mafia catenese di Nitto Santapaola, in carcere ormai dal lontano 1993. Un boss meno iconografico ma a conti fatti più moderno di zio Totò. In “Catania Bene. Storia di un modello mafioso che è diventato dominante” (Mondadori, 192 pagine, 17 euro) il magistrato Sebastiano Ardita racconta la storia di una mafia meno conosciuta di quella palermitana. Ma, è la tesi centrale del libro, più utile a comprendere l’oggi. “I poteri pubblici a Catania”, scrive Ardita, “pigri e accondiscendenti, trovarono in Santapaola il migliore alleato per cogestire l’ordine, stabilendo un patto di non belligeranza tra i più forti e stabili che si ricordino nella storia delle relazioni tra Stato e mafia”.

Ogni riferimento alla “trattativa” non è casuale, dato che quello è stato l’oggetto del precedente libro del magistrato – oggi procuratore aggiunto a Messina, ma in passato dirigente dell’Amministrazione penitenziaria, competente fra l’altro sull’applicazione del 41 bisintitolato significativamente “Ricatto allo Stato”. Se non è vero che “tutto lo Stato” abbia trattato con i boss nella stagione delle stragi, scrive Ardita, “è riduttivo il voler ritenere che la trattativa sia venuta fuori all’improvviso nel 1992, come Minerva dalla testa di Giove”.

Ecco allora la figura di un boss che era già 2.0 prima che questa espressione avesse alcun significato. Nella Catania degli anni Ottanta Nitto Santapaola “andava a pranzo amichevolmente con i politici della città”, si faceva fotografare con il sindaco e altri notabili, ospitava “il prefetto e il questore” all’inaugurazone della sua nuova concessionaria d’auto. Allo stesso tempo era in grado di ordinare la strage della circonvallazione del 1982, dove tre carabinieri vennero massacrati per eliminare durante un trasferimento il rivale Alfio Ferlito. E l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, nel 1984. “Si dica chiaro che non è un omicidio di mafia” tuonò allora il parlamentare Nino Drago, luogotenente locale di Giulio Andreotti. Il suo fiuto politico quella volta fallì: la responsabilità di Santapaola come mandante del delitto fu sancita definitivamente dalla Cassazione nel 2003. E quando a Palermo l’ascesa dei corleonesi, a suon di kalashnikov, si fa inarrestabile, il boss 2.0 fiuta l’aria e stringe un patto di ferro con Riina, pur non condividendone la vocazione stragista.

La Catania raccontata da Ardita è un grande tavolo, o se preferite un grande salotto, dove a gestire gli affari siedono idealmente mafiosi, politici, amministratori, imprenditori, costruttori, giudici, poliziotti, carabinieri, giornalisti. Non tutti, ovviamente, ma tutte queste categorie sono rappresentate. I pochi che osano disturbare vengono isolati e all’occorrenza uccisi. In ballo ci sono una fetta dei 25 miliardi di lire l’anno che i partiti drenano come finanziamento illecito dagli appalti della Regione Sicilia (dato messo a verbale dall’ex presidente Dc Rino Nicolosi), il sacco edilizio della città, i voti, gli incarichi. Il sistema accontenta molti e i danni collaterali non sembrano preoccupare nessuno: circa duemila morti per mafia dalla nascita della Repubblica a oggi, riporta Ardita, una specie di guerra civile di provincia. Ma Cosa nostra catanese ha potuto contare nel corso degli anni su “decine di migliaia di affiliati”, con un vasto esercito criminale di riserva da cui attingere nei quartieri popolari abbandonati nel degrado e scarsi di altre prospettive.

LA FRASE. “Pippo Fava è morto probabilmente per questo. Perché si è reputato che i danni conseguenti alla sua morte sarebbero stati meno gravi per Cosa nostra rispetto al danno che stava procurando da vivo: l’avere scoperto non solo i singoli affari, ma ‘il patto’ tra istituzioni, imprenditoria e mafia che controllava Catania”.