Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti crede che "sia ancora da auspicare il fatto che le parti sociali trovino il modo di fare quello che compete loro", ma il capo del governo ha già le idee chiare sulle aree di intervento
Il tempo delle trattative è finito, ora la palla passa al governo. Dopo le parole del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ha decretato il fallimento della discussione con i sindacati sul tema della contrattazione, ora sarà l’esecutivo a intervenire. Favorire la contrattazione decentrata, imporre una stretta sulla rappresentanza sindacale, introdurre un salario minimo e ridurre il ricorso agli scioperi nei servizi pubblici: queste le mosse sull’agenda del governo. Se infatti il ministro del Lavoro Giuliano Poletti crede che “sia ancora da auspicare il fatto che le parti sociali trovino il modo di fare quello che compete loro”, il premier Matteo Renzi ha invece le idee ben chiare sulle aree di intervento.
Non è un mistero, infatti, quale sia il pensiero del presidente del Consiglio al riguardo. L’idea è di puntare su un modello basato sulla contrattazione decentrata, cioè a livello aziendale, anziché su quella nazionale. Con il timore, da parte dei sindacati, che la minore forza contrattuale dei lavoratori nelle singole imprese apra la strada a un potere unilaterale nelle mani del datore di lavoro. La direzione era già stata indicata, nell’agosto 2011, dalla Banca centrale europea nella famosa lettera al governo italiano, dove si chiedeva di riformare la contrattazione e rendere gli accordi aziendali “più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”. In tutta risposta, il governo Berlusconi varò un decreto per permettere ai contratti aziendali e territoriali di operare “anche in deroga alle disposizioni di legge” in materia di mansioni, orari di lavoro, assunzioni e licenziamenti, “ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Questo decreto fu poi usato dalla Fiat di Sergio Marchionne per costruirsi un contratto aziendale in deroga alle norme fissate dal documento nazionale. E ora, il governo si appresta a muoversi sulla stessa linea.
Strettamente legato al tema della contrattazione è quello della rappresentanza sindacale. In questo caso, l’orientamento del governo è ancora più esplicito. “Mi piacerebbe arrivare un giorno al sindacato unico, ad una legge sulla rappresentanza sindacale e non più a sigle su sigle su sigle”, aveva affermato Renzi nel maggio scorso. Il punto è stabilire quali sigle possono trattare con le organizzazioni datoriali e con le aziende per firmare intese che riguardino tutti i lavoratori. E l’intenzione del governo, esplicitata nel discorso del premier, sarà quella di operare una stretta sull’accesso ai tavoli di trattativa, per escludere i sindacati meno rappresentativi. Anche in questo caso, salta all’occhio la convergenza con Marchionne, secondo il quale”un modello con un sindacato unitario funzionerebbe bene”. Eppure, almeno su questo punto, un’intesa tra sindacati e Confindustria c’è, ed è datata 10 gennaio 2014. Non a caso, le commissioni Lavoro di Camera e Senato stanno studiando disegni di legge che recepiscano quel testo. Le bozze prevedono infatti una soglia di sbarramento del 5% di rappresentanza per accedere alle trattative, misurata sulla base delle elezioni dei delegati. Per rendere valido l’accordo tra sindacati e azienda, invece, sarà necessaria l’approvazione del 50% +1 dei lavoratori o dei delegati sindacali.
Atteso un intervento del governo anche in materia di salario minimo. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non averlo ancora adottato, perché finora ci ha pensato il contratto nazionale a stabilire il tetto minimo di retribuzione dei lavoratori. Già nella legge delega del Jobs act era previsto un intervento su questo tema, ma il governo aveva voluto aspettare per dare spazio a un accordo tra le parti sociali. Ora, in assenza di un’intesa, la palla torna nelle mani dell’esecutivo. Resta da capire se l’intervento riguarderà solo le aree non coperte dal contratto nazionale o se sarà esteso a tutti i settori. In parlamento giace da tempo un disegno di legge che fissa il salario minimo a 9 euro all’ora, ma l’Inps ha già spiegato che la cifra appare elevata e “potrebbe avere effetti negativi sull’occupazione dei giovani e dei lavoratori meno qualificati”.
Nel pacchetto delle misure sul lavoro nell’agenda del governo, rientra anche la regolazione del diritto di sciopero, a sua volta legata al tema della rappresentanza. Le commissioni parlamentari stanno lavorando su disegni di legge che prevedono un referendum confermativo della decisione di astenersi dal lavoro nei servizi pubblici. Il senatore Pd Pietro Ichino ha proposto una soglia del 50%, mentre l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano vuole abbassare l’asticella al 20-30 per cento. Una norma che, anche in questo caso, punta a mettere ai margini le sigle minoritarie.