Pontedera – In uno scorrere a due facce, l’attesa e l’assenza, la sorpresa e la sospensione, la valigia che sa di andare e lo stare all’interno di questo albergo dove si fondono le stanze e si mixano i piani, il tempo è soltanto una variabile, una ics da incasellare, da forgiare, da sformare, dargli luogo, ampliarlo, esploderlo o farlo rallentare. E’ il Tempo dell’universo che affianca, come grande orca, il nostro tempo piccolo, a volte sovrapponendosi, altre scambiandosi, altre ancora contraendosi, contraddicendosi. In questo albergo, luogo non-luogo nel quale i personaggi entrano ma escono raramente, come limbo, frontiera o rifugio, spazio dove finalmente essere compresi e capiti, quest’hotel che ci ha ricordato più il “Million Dollar” di Wim Wenders che l’“Overlook” di Kubrick, è una bolla di sapone, uno spaccato, una crepa, una breccia nel mondo solido là fuori.
Un mondo, all’esterno, che questi otto ragazzi, presumibilmente trentenni (quella generazione a metà strada tra la voglia di conquista e il pessimismo che una famiglia, un lavoro, un mutuo e una pensione sia difficile portarla a casa), quattro giovani attori giapponesi ed altrettanti italiani, in qualche modo rifiutano. E’ una tana, finalmente isolati e finalmente assieme a qualcuno che condivide i loro stessi pensieri e ansie. Campeggia sullo schermo alle loro spalle la grande scritta “Il mio tempo”, e in queste poche parole sta l’anima di “Different shape”, produzione Fondazione Teatro della Toscana, come un elastico che si allunga o si rimpicciolisce come fisarmonica, si apre a ruota di pavone o si racchiude come riccio sotto le foglie secche. Le valigie, anzi meglio i trolley, di questi giovani viaggiatori (che paradossalmente arrivano, si fermano, stanno, senza andare a vedere, visitare, fotografare) della generazione low cost, bagagli a mano nei quali puoi portare poco, riportare via pochi oggetti, stare poco, nel mordi e fuggi consumistico che ogni ramo del reale ha contagiato ed infettato.
Qui, invece, nel testo e nella regia scarna di Takahiro Fujita (classe ’85) i ragazzi sembrano essere partiti per cercare qualcosa ed invece, una volta arrivati, abbiano smesso di perseguirla, di correre dietro a quel paravento, a quell’allodola, a quel richiamo di bastone e carota. Resiste lo spaesamento e il senso di perdita che già avemmo occasione di vedere nel lavoro precedente (fu folgorante, questo è ancora in fase embrionale e laboratoriale) dei nipponici Mum & Gipsy portato in Italia (“Dots and Lines”, visto a Messina, Ancona, Fabbrica Europa a Firenze). Azioni formali che nella loro linearità e semplicità ci conducono in un mondo da una parte asettico, senza scossoni, dall’altro volutamente acquietato dalle voci, eremitizzato, escluso, salvato.
Albeggia una malinconia di fondo come da fine dell’estate, quel sapore dolciastro di sangue quando non capisci dove hai la ferita. Ragazzi che stanno viaggiando verso se stessi, alla loro scoperta, ma si fermano, si immobilizzano al primo angolo accogliente in questa periferia non circostanziata, rinunciando ai check in infiniti sulla lunga strada della conoscenza, processo faticoso che non porta inevitabilmente alla vittoria ma più presumibilmente all’insoddisfazione nella non accettazione della mancanza.
Perdita e conquista si inseguono ma qui questi ragazzi, in questa calma apparente che forse spesso gravita nell’orbita della noia, nelle loro cadute, nel loro non sentire più radici ma nemmeno di considerare una qualche forma di futuro, hanno trovato il loro habitat, lento, pacato, dove gli ambienti sono divisi in compartimenti stagni, dove non ci si può sbagliare, non ci si può confondere, che non tutti sono pronti a mettersi in gioco, a lottare per un posto al sole, il coltello tra i denti; c’è chi rifiuta la competizione e l’aggressione ai propri simili, c’è chi dice no.
Visto al Teatro Era, Pontedera (PI), il 23 settembre 2015.