Anche nella difesa del territorio ci sono figli e figliastri: i primi sono i capoluoghi e le aree urbane, i secondi sono le periferie, gli invasi e i bacini dei fiumi, il reticolo dei canali. Così centinaia di piani di sistemazione di aree verdi dell'Anbi (l'associazione dei consorzi di bonifica) restano bloccati
Mentre lo Stato non riesce a difendere il territorio dalle piene, ci sono 405 progetti per arginare il dissesto idrogeologico che restano senza finanziamenti nonostante siano quasi tutti cantierabili, preparati in 17 regioni dall’Anbi, l’Associazione dei consorzi di gestione del territorio e delle acque per un importo di quasi 1 miliardo di euro. Massimo Gargano, direttore Anbi, spiega a ilfattoquotidiano.it di che tipo sono i progetti di cui si parla. In Calabria, per esempio, ce n’è uno per il torrente Saro che non scorre più solo tra gli agrumeti, ma tra capannoni e paesoni, e quando piove forte piomba con una velocità 5 volte superiore a quella di qualche anno fa. Ovvio sia altissimo il rischio che straripi e spacchi tutto, come è successo sempre in Calabria 20 giorni fa con due torrentelli pieni di terra per la cui manutenzione le Province non hanno mai mosso un dito. Il progetto di risagomatura e scavo del Saro costerebbe appena 4 milioni e mezzo di euro. Che non saltano fuori. In Umbria basterebbe 1 milione e 800mila euro per mettere in sicurezza i torrenti Topino e Chiona costruendo le vasche di “laminazione”, bacini di contenimento delle acque esondate, come è stato fatto un anno fa con successo a Orvieto su un’area di 70 ettari. Ma anche in questo caso i soldi non si trovano.
L’Anbi non può finanziare direttamente queste opere perché se lo facesse, trattandosi di interventi straordinari, sarebbe accusata di distrazione di fondi. I finanziamenti dovrebbero essere stanziati dalle Regioni e in parte dal ministero delle Infrastrutture che però inseguono il libro dei sogni. In pratica anche nella difesa del territorio ci sono figli e figliastri.
I figli sono le aree urbane e le grandi città, su cui il governo e le istituzioni stanno concentrando tutte le attenzioni. In maniera maldestra, peraltro, sull’onda delle emergenze e delle emozioni del momento, come ha raccontato il Fatto Quotidiano per la vicenda del ponte di Olbia, ricostruito nello stesso posto di prima e male, solo per non contraddire le disposizioni delle carte bollate. Per i figli il governo non riesce a spendere neanche ciò che vorrebbe spendere, cioè i 9 miliardi approvati dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di cui è stata utilizzata solo una parte esigua (50 milioni). Le opere approvate dal Cipe non si fanno per il semplice motivo che non si possono fare, cioè i soldi non sono spendibili, nonostante tutte le buone intenzioni, perché mancano i progetti esecutivi.
Nello stesso tempo non vengono finanziati i progetti veri, tipo quelli dell’Anbi, per i quali far partire i lavori sarebbe relativamente semplice e spedito. Questi progetti non partono perché sono i figliastri: le aree periferiche di collina e di montagna, gli invasi e i bacini dei fiumi, il reticolo dei canali nelle campagne. Con la difesa del territorio il governo si sta in pratica comportando come l’ammalato che dà la colpa del suo male al termometro che segna la febbre. Moltiplica le attenzioni sugli effetti del dissesto e sorvola sulle cause. Forse perché ricostruire un ponte in mezzo a una grande città fa notizia, assicura titoli sui giornali e servizi in tv e porta voti. Mentre un’opera paziente di risistemazione del territorio nelle campagne, in collina o in montagna, per quanto utile rischia di passare sotto silenzio.
Con sedi e uffici sparsi su tutto il territorio nazionale, l’Anbi non è un’organizzazione priva di difetti e soprattutto nel sud, in particolare in passato, molti consorzi erano semplici carrozzoni mangiasoldi. Da qualche anno sta però cercando di esportare su tutto il territorio nazionale le buone pratiche sperimentate in alcune regioni del Centro Nord, dal Veneto all’Emilia a parti della Toscana. Di recente, per esempio, la realizzazione di bacini di espansione nel Trevigiano e in Val d’Arda, nell’area di un affluente del Po nel Piacentino, hanno messo quelle zone in sicurezza, al riparo dalle alluvioni. Nei consigli dei consorzi di bonifica ci sono anche rappresentanti del territorio, a partire dai sindaci, e se questo di per sé non è garanzia di funzionamento efficace e corretto, assicura comunque un legame più diretto con le esigenze delle zone interessate. E dovrebbe permettere scelte meno calate dall’alto e impastoiate di logiche burocratiche di quelle che hanno dato il meglio di sé con la ricostruzione del ponte di Olbia, causa di due alluvioni in 3 anni.