Abbiamo assistito negli ultimi 10 giorni a due gravissimi attacchi subiti da Organizzazioni Non Governative (Ong): l’assassinio di Cesare Tavella il 28 settembre 2015, un Programme Manager della ong tedesca Icco Cooperation, ad opera di fanatici islamici, a Dhaka, Bangladesh; la strage di 22 persone del 3 Ottobre 2015- 12 operatori volontari Msf e 10 pazienti di cui 3 bambini, nell’Ospedale di Kunduz di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, ad opera dell’aviazione americana. Gli operatori di Msf, come quelli di Emergency, Croce Rossa, Intersos e di molte altre ong impegnate nell’emergenza umanitaria, prestavano volontariamente la loro opera con tutti gli afgani, talebani e non.
Si tratta quasi certamente di un altro gravissimo crimine di guerra in violazione della Convenzione di Ginevra che vieta espressamente il fuoco su soccorsi ed ospedali. Msg ha reagito aprendo un dossier, chiedendo una commissione di inchiesta internazionale indipendente ed evacuando il proprio personale. Rimangono altri tre ospedali in Afghanistan.
Da qualche parere raccolto, l’ipotesi che mi convince di più è che nell’ospedale siano stati segnalati dal governo afgano capi talebani feriti, da “terminare”. Non danni collaterali quindi, secondo questa interpretazione, ma obiettivo militare in spregio alla Convenzione di Ginevra, quella che per il grande pubblico recita ‘Non sparate sulla Croce Rossa’.
L’ospedale, l’unico della zona, è ora sparito, così come lo è la notizia dai titoli di giornale nel giro di tre giorni.
L’altra tragedia nell’ambito della cooperazione internazionale, questa volta non nell’ambito dell’Emergenza Umanitaria ma in quello (più sicuro…) della cooperazione allo sviluppo, è stata l’uccisione di Cesare Tavella, Programme Manager di Icco Cooperation. Tavella ed il suo progetto miravano allo sviluppo economico – agricolo locale e con esso al rafforzamento del ruolo e delle donne – oggetto e soggetto attivissimo nelle politiche di sviluppo. Freddato da non ancora identificati fanatici musulmani, mentre faceva jogging. Anche qui il fatto è scomparso dai titoli dopo tre giorni.
Avevo già trattato i temi dei pericoli nella cooperazione internazionale, anche con dati e cifre, un anno fa nel post “Perché uccidono i cooperanti’.
Una riflessione un po’ più strutturata sui due gravissimi eventi, ed anche un confronto su questo, mi è imposto dall’essere responsabile di una scuola che ha due percorsi formativi, uno specifico per l’Emergenza Umanitaria e l’altro specifico per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, formando i manager e professionisti di settore che poi andranno a lavorare in scenari complessi e a volte di guerra. E come autore di questo blog, anche nei confronti dei tanti lettori che mi scrivono di voler cambiare vita ed “entrare nella cooperazione internazionale”. Vi porgo le mie riflessioni:
1. Le ong danno fastidio. Danno fastidio nei progetti di cooperazione allo sviluppo, quando promuovono i diritti delle donne, creano sviluppo creando un’alternativa al ‘welfare’ senza diritti costruito dai fanatici musulmani, togliendo loro ‘terreno’ di coltura. Danno fastidio portando i valori occidentali sui diritti dell’uomo e soprattutto delle donne.
L’attacco all’ospedale di Kunduz non è stato diretto contro Msf, ma di certo dà molto fastidio un presidio indipendente in grado di ospitare nemici, come si capisce benissimo leggendo le prime dichiarazioni del governo di Kabul.
Le ong danno fastidio ai fanatici, danno fastidio ai governi danno fastidio alle multinazionali (leggi recente post “L’ong che ha smascherato Volkswagen”). Le ong danno fastidio anche anche perché sono sempre più indipendenti – basando in via crescente la loro sostenibilità sulla base di strategie di fundraising a partire da donatori privati- o di mercato (progetti auto-sostenibili di social business) oltre che sui fondi pubblici del tutto insufficienti.
2. Gli operatori delle ong non sono missionari né fanatici, sono professionisti – volontari o retribuiti, che si impegnano per una causa, ma che hanno figli, genitori, amori. E’ normale ma non scontato che rischino la vita, quindi nel dibattito: ‘bisogna rimanere anche sotto le bombe’ vs ‘no bisogna garantire standard minimi di sicurezza e se è il caso andarsene’ sono decisamente a favore del secondo- lo dico ai corsisti, ai lettori, ai colleghi, anche come posizione ufficiale della Scuola che dirigo. Sono polemiche che mi danno fastidio, fatte spesso da giovanotti senza figli che non si rendono conto della molteplicità di doveri e responsabilità di un adulto, o da fondatori fanatici.
3. Lavorare nel non profit non è come lavorare in banca o in azienda, e per trovare pericoli non c’è bisogno di andare all’estero, basta stare in Italia ed impegnarsi con associazioni come Libera e tante altre impegnate contro le mafie. A volte i candidati ad un posto nei nostri master più giovani (es.22-23 anni) vengono accompagnati dai genitori, in ansia per la decisione del figlio. A questi ultimi – da padre di tre figli – dico che lavorare fuori può essere pericoloso, che gli scenari di impegno vanno scelti anche con prudenza (si sa che il Bangladesh è diventato pericoloso negli ultimi 10 anni), che la scuola può dare consigli in caso di dubbio prima della scelta della destinazione lavorativa… ma che anche in Italia i rischi ci sono per qualsiasi giovane ‘che non ci stà’. Così come ai professionisti e manager for profit 40enni che vogliono cambiare vita e si candidano, ricordiamo d’ufficio le loro responsabilità molteplici. Ricordo una volta di non avere ammesso un 35enne di ottimo curriculum, separato, che voleva partire lasciando (“senza problemi”, disse) il figlio piccolissimo alla madre. ‘Fantastico- gli risposi- va prendersi cura dei figli degli altri e abbandona il suo?”
Condoglianze e vicinanza ai parenti, ai colleghi, alle organizzazioni impegnate sul campo.
Marco Crescenzi e staff di ASVI Social Change – www.socialchangeschool.org
Link utili di approfondimento:
http://www.socialchangeschool.org/it/20/01/2015/gretaevanessa-il-volontariato-serve-davvero/
Vedi: blog4change, Lavorare nel non profit.
Per scrivermi: m.crescenzi@socialchangeschool.org – con riferimento al titolo del post.