Qualche tempo fa, in un breve saggio pubblicato su rivista, notavo come, nella nostra contemporaneità intensamente mutata e ‘mutante’, il vero dibattito da sviluppare in poesia non fosse quello ’stilistico’, quanto quello del medium scelto per la sua trasmissione: la carta, o la voce del poeta.
A confortare quanto immaginavo tempo fa – e non è il solo segnale – viene un articolo di Peter Howarth sull’Indipendent, in occasione della Giornata Nazionale della Poesia che in Albione si festeggia il 7 ottobre.
È una disamina ampia e ben strutturata di un fenomeno ormai evidente, quello che l’autore chiama «the rise and rise of performance poetry», che potremmo qui tradurre con “ l’ascesa progressiva della poesia-performance”, quella che si fa fuori dai libri, sul palco, utilizzando come medium la parola detta, la voce e il respiro del poeta.
Scopriamo così che tutto il mondo è paese: anche in Gran Bretagna lo spazio d’attenzione che la poesia performance sta guadagnando è ogni giorno più ampio, anche oltre Manica questo provoca l’indispettita reazione dei custodi del Sacro Graal Alfabetico (lesti ad accusare di superficialità, spettacolarità, ingenuità i colleghi che pur, con evidenza, raggiungono il pubblico con un’efficacia nettamente maggiore di loro), anche lì, a Nord e a Sud del Vallo di Adriano, dichiarare d’essere un poeta performativo significa probabilmente guadagnarsi l’indifferenza e il sussiegoso disprezzo di chi, pur appena sceso dal medesimo palco dove ha piattamente letto i propri versi in una dissennata operazione di “auto-advertising”, ora è lesto a rivendicare i diritti del Canone, del Moloch cartaceo e muto che governa quella che Henri Chopin chiamava la civilisation du papier.
«Mi sento discriminato (othered) quando dico che faccio spettacoli di poesia”, dichiara Raymond Antrobus, che pure quegli spettacoli li ha portati sin alla Keats House.
Né accadono lì cose poi tanto differenti dalle nostrane, visto che Niall O’ Sullivan, Poeta residente della London Metropolitan University, deve sottolineare come fare spoken word, decidere di salire su un palco ed eseguire (performare) i propri testi, sia qualcosa di ben diverso e ben più complesso del semplice pronunciarli dal vivo, ad alta voce: « It has greater application than just doing it live.»
Nella lingua di Shakeaspeare (e in quella di Whitman, peraltro e in quella di Goethe, di Calderon, di Pessoa, di Racine, di Majakovsij, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo), così come in quella in cui “il sì suona” (per l’appunto: suona!), intanto, il Poetry Slam dilaga, scandalizza i Club Rionali del Verso Profondo e Raffinato, impone energia e forza ai languidi manierismi degli adepti del ‘verso libero’ con la dinamica ‘incatenata’ dei suoi ritmi e delle sue ‘rime.
E la faccenda è tanto evidente che BBC4 le dedica un approfondimento specifico, intitolato Rhymes Rock & Revolution: The story of performance poetry, brings to life e che è solo la prima puntata di un progetto di approfondimento sulla situazione della ‘parola’ che va dal più tradizionale Armitage, sino alle performance del “punk poet” Thick Richard, al flow dolcemente mitragliato di Kate Tempest.
L’unica vera diversità, tra la terra del Boccaccio e quella del Chaucer, è che lì almeno se ne parla, se ne discute anche su grandi testate giornalistiche, lo si mette al centro delle celebrazioni della Giornata Nazionale della Poesia, mentre qui da noi si preferisce far finta di niente (sono anche sordi da noi, i poeti ‘muti’), si opta per negare l’evidenza, ci si accontenta piuttosto e perfino di un Michele Serra che si improvvisa lettore di Caproni (di Caproni! avete letto bene) e lo porta sul palco insieme a un po’ di canti popolari virati in rock; l’unica differenza è che lì hanno programmi di scrittura creativa e di composizione poetica nelle Università e nelle scuole, hanno Poeti residenti nei campus e nelle città e dunque, anche se l’ostracismo degli ‘integralisti di carta’ è grande, ci sono comunque spazi agibili per chi non la pensa come loro, possibilità di stimolare dibattiti, di sviluppare ricerche artistiche diverse, tentare scommesse sul futuro.
Da noi no. Con le porte delle istituzioni educative chiuse, con le terze pagine dei quotidiani sterminate da gossip letterari e surreali, con pochi e infeudati spazi editoriali, il massimo che si può sperare è che – poco prima del 21 marzo prossimo – qualcuno decida di riesumare per l’ennesima volta il dibattito intorno alla domanda più demenziale del secolo: un cantautore può essere un poeta?
Così saranno certi, almeno ‘certi’ poeti e ‘certi’ cantautori, di aver messo ancora una volta nell’angolo la loro più pericolosa nemica: la poesia viva, la poesia che ritorna dal suo esilio dalla voce. Ma sarà inutile, perché questa che Howarth chiama “ascesa” è in realtà una rinascita e perché la tradizione di Dylan Thomas è ben fresca, come quella di Dante.