Trash-Chic

Trash-chic, da Rita Pavone a Renzo Arbore: quando non canto, scrivo. E auguri a Mr Esselunga

Fan per vocazione. Galeotto fu un giradischi di quelli con la puntina che saltava a ogni graffietto del 45 giri. E le note urlanti de ‘La partita di pallone’ invasero la stanza del quindicenne Anton Emilio Krogh. Che marinò la scuola per andare a fare la posta di 5 ore sotto l’albergo Vesuvio di Napoli dove alloggiava per una notte Rita Pavone, in tourneè con il musical “Due sul pianerottolo” insieme a Macario. Lei era poco più di una ragazzina, minuta, capello corto rosso, alla Giamburrasca, ma era tutta grinta e energia. Era già una star. Anton Emilio le consegnò timido un mazzo di fiori, farfugliando qualcosa. “Dovetti farle simpatia, perché mi invitò a mangiare una pizza con lei”, ricorda Anton, circa 38 anni dopo. Nel frattempo piccoli uomini crescono e lui diventa un famoso avvocato penalista. Da adolescente colleziona tutti i suoi dischi da ‘Zitto, Zitto’ a ‘La pappa con il pomodoro’ (a furia di sentire lo stesso ritornello la tata esasperata glielo scaraventa contro il muro facendolo in mille pezzi) e ritaglia tutti gli articoli di giornali che parlavano di lei. La passione adolescenziale si rafforza, da fan diventa amico e confidente. L’aspetta nei backstage nei concerti.

E per quel bambino che negli anni ’60 inseguiva una voce lontana, al Fairytale party, per il suo compleanno si materializza nientemeno che Mary Poppins, vestita con trine e merletti dalla Sartoria Tirelli, che, come per magia getta caramelle colorate su 1500 invitati in un bosco incantato dell’antica villa di famiglia spalancata sul mare di Cefalù. E dedica uno strepitoso ‘Supercalifragilistichespiralidoso’ al suo principe azzurro po’ cresciuto. Questo e altri ricordi sono il corredo della bio “Tutti pazzi per Rita” (Rizzoli), un regalo autocelebrativo per i suoi 70 anni. Dove ripercorre gli esordi, difficili, quando veniva scartata ai concorsi musicali. E il padre voleva per lei un lavoro più sicuro, in fabbrica tessile. Ha tenuto duro, non ha venduto camice ma milioni di dischi in tutto il mondo.

Note di scrittura. Il luogo dell’incontro è insolito: in ammollo nella laguna del Regina Isabella d’Ischia mi imbatto, a mo’ di polipo, in Renzo Arbore, fisico ancora da inaffondabile ragazzino. Tra una bracciata e un’altra si chiacchiera del più e del meno e della sua prossima biografia-memoir sui suoi primi 50 anni in Rai. Nel mirino ha la tv trash, lui che ne ha inventata una nuova, leggera, ironica e d’intrattenimento. Icona pop (nel senso popolare) sempre in anticipo sui tempi. Geniale la trovata delle ragazze coccodè, in guêpière e calze autoreggenti, praticamente le veline ante-litteram. Sempre in perenne movimento con la sua Orchestra Italiana. Oltre 25 anni di scorribande musicali. E dice ammiccante: “Dopo i Rolling Stones, siamo il gruppo più longevo, ancora on the road”. Oh, yes. “E chi ci ammazza…”. E pensare che doveva fare il dentista, vero per metà (avrebbe dovuto seguire lo schema paterno ed ereditare lo studio dentistico) ma è anche il titolo del suo ultimo doppio cd, una rivisitazione jazz in chiave neapolitan song.

Da gentiluomo del Sud, non ne può più della Napoli di Gomorra che ha fatto il giro del mondo. “E ha inguaiato Napoli, allora con Dudù (Raffaele La Capria, ndr) abbiamo pensato a un documentario (diretto da Fabrizio Corallo, ndr) “Napoli Signora”, un affresco di una città dai modi antichi, dai sapori veraci. E fin a quando avrò fiato canterò quello che a Napoli non si vorrebbe più cantare”. Tiè a Saviano.

Chi si celebra qui, chi si pompa là, chi si auto festeggia lì. Ha invece scelto il low profile Bernando Caprotti, vecchio signore dai modi eleganti, che ieri ha compiuto 90 anni. Inventore della Esselunga e della grande distribuzione, uno da cui Oscar Farinetti dovrebbe andare a scuola tutti i giorni. Essere bocciato e ripetere l’anno. Ha risposto con cortesia a una mia richiesta d’intervista declinandola a causa di una “fastidiosa” frattura a una vertebra (sic!) che per un uomo della sua tempra sembra fargli il solletico. E che nel suo libro autobiografico “Falce e carrello” si rammaricava di aver dovuto lasciare lo sci, uno sport che amava tanto, per dedicarsi al lavoro. Dunque posso solo immaginare come abbia trascorso il suo novantesimo. Circondato dagli affetti, i più solidi, i più stretti. E poi in ufficio, come sempre, come tutti i giorni seduto alla sua scrivania. Unica concessione, un brindisi con i suoi dipendenti. Auguri, Bernando.
Twitter @januariapiromal