Cinema

He Named Me Malala, un docufilm per raccontare la ragazza simbolo dei diritti delle donne

Dall’impatto emotivo dirompente, l'opera di Guggenheim riporta fedelmente e senza eccessi buonisti la storia della studentessa pakistana. Il documentario mette in luce anche i lati più normali della sua vita, come le liti coi fratelli e i brutti voti a scuola

di Emanuele Salvato

Simbolo della lotta per la libertà e il diritto delle donne all’istruzione, la storia di Malala Yousafzai arriva sul grande schermo. He Named Me Malala è il titolo del docufilm diretto dal regista statunitense Davis Guggenheim, Premio Oscar nel 2007 con il documentario Una scomoda verità nel quale viene toccato il tema del riscaldamento globale.

Il docufilm su Malala uscirà fra poco nelle sale cinematografiche italiane, ma l’abbiamo visto in anteprima alle Giornate Fice dedicate al cinema d’essai, in programma a Mantova fino a giovedì 8 ottobre. Un’opera dall’impatto emotivo dirompente, quella di Guggenheim, che riporta fedelmente e senza eccessi “buonisti” la storia della studentessa pakistana.

Un documento da far vedere nelle scuole, e non solo, a testimonianza dell’importanza dell’istruzione come antidoto ai regimi illiberali. Perché, per usare le parole di Malala, “un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”. Per lungo tempo Malala ha lottato fra la vita e la morte, dopo che nell’ottobre del 2012 un commando di talebani le ha sparato con la chiara intenzione di ucciderla e metterla a tacere per sempre. Due colpi: uno al lato sinistro della testa, l’altro al collo.

Con lei rimangono ferite anche alcune compagne di studio. Malala subisce le conseguenze più gravi, sembrava che per lei non ci fosse nulla da fare. Un intervento d’urgenza in un ospedale militare pakistano e il successivo trasferimento in una struttura sanitaria inglese la salvano.

La ragazza pakistana si era esposta molto. Prima il blog clandestino curato per la Bbc, nel quale denunciava la deriva oscurantista dei talebani pronti a prendere la valle dello Swat, poi la decisione di metterci la faccia e di esporsi pubblicamente contro i talebani, che volevano negare a lei, e a tante ragazze come lei, il diritto allo studio e all’istruzione. “Quella ragazza è il simbolo dell’oscenità e degli infedeli”, diranno i talebani rivendicando l’attentato. Ma quei proiettili ottengono l’effetto contrario, come ben spiega Malala nel discorso pronunciato alle Nazioni Unite nel luglio del 2013 e riportato dal regista verso il finale del documentario: “Il 9 ottobre 2012, i talebani mi hanno sparato sul lato sinistro della fronte. Hanno sparato ai miei amici, anche. Pensavano che i proiettili ci avrebbero messi a tacere, ma hanno fallito. Anzi, dal silenzio sono spuntate migliaia di voci”.

Il regista Davis Guggenheim per restituire un’immagine di Malala che andasse oltre quella pubblicamente nota di paladina dei diritti, per 18 mesi ha vissuto con lei e la sua famiglia a Birmingham, dove la vincitrice del Premio Nobel per la Pace del 2014 tuttora risiede.

Perché a casa sua, in Pakistan, non ci può tornare visto che i talebani hanno giurato che riproveranno ad ucciderla e anche molti suoi connazionali, come dimostrano alcune interviste raccolte da Guggenheim, non la stimano ritenendola una ragazzina in cerca di notorietà.

Così, insieme alla Malala più nota, quella coraggiosa che non indietreggia neppure di fronte ai proiettili dei talebani, il documentario fa conoscere la ragazza che litiga coi fratelli, che è dispettosa, che ama leggere, ma che non sempre prende bei voti a scuola. Una ragazza legata a doppio filo con il padre, un insegnante e attivista per il diritto allo studio delle donne, che influisce enormemente sulla sua formazione e che, non a caso le attribuisce il nome di un’eroina della tradizione pashtun capace di ridare fiducia all’esercito afgano in rotta contro gli invasori inglesi. “Mio padre mi ha dato solo il nome Malala – dirà la studentessa nel film – ma tutto il resto l’ho fatto io”.

Il documentario, basato sul libro Io sono Malala (Garzanti), mescola video-interviste realizzate a tutti i membri della famiglia Yousafzai con immagini di repertorio, utilizzate soprattutto per descrivere i frangenti della vita nella valle dello Swat e dell’attentato. Per riprodurre e raccontare episodi senza copertura videofotografica, Guggenheim si affida, abilmente, ai disegni animati di Jason Carpenter.

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