Non ci fu alcun blitz della forze di sicurezza somale per liberare, nell’estate del 2012, Bruno Pelizzari e la sua compagna sudafricana, Debbie Calitz. Secondo quanto riportano Al Jazeera e dal Guardian, che citano documenti riservati dell’intelligence sudafricana in loro possesso, l’Italia avrebbe pagato un riscatto da 525 mila dollari ai sequestratori. “Subito dopo essere stati liberati – racconta Debbie Calitz a IlFattoQuotidiano.it – alcuni uomini ci hanno portato in una stanza. Lì un agente che, se non sbaglio, era francese ci disse di non parlare assolutamente di alcun riscatto perché questo avrebbe messo in pericolo altre persone che vivono e lavorano in Paesi a rischio”. Il ministero degli Esteri dell’allora governo Monti però, dichiarò che la liberazione della coppia che per 20 mesi è rimasta ostaggio dei terroristi di Al Shabaab era il risultato di un’azione militare. Anche la sorella di Pelizzari, Vera Hecht, che rappresentava la famiglia durante le trattative, ha parlato di riscatto con Al Jazeera: “Ci fu detto – ha dichiarato – di non rivelare mai che effettivamente era stato pagato un riscatto”.
La notizia solleva nuove polemiche riguardo alla politica adottata dal governo italiano sul pagamento dei riscatti, a pochi giorni dalle rivelazioni del “tribunale islamico” del Movimento Nureddin Zenki, smentite dalla Farnesina, secondo cui il governo avrebbe sborsato 11 milioni di euro per la liberazione delle due cooperanti rapite in Siria, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Quelle divulgate dal Guardian sono “speculazioni destituite da fondamento” che espongono “ad alto rischio” le operazioni in corso per riportare a casa gli altri ostaggi italiani nel mondo, fanno sapere fonti dell’intelligence.
La rivelazione arriva dopo la pubblicazione da parte di Al Jazeera e del Guardian di una nuova tranche di spycables provenienti dagli uffici dei servizi segreti sudafricani. Gli stessi documenti che, a inizio anno, svelarono le bugie del governo israeliano sul nucleare iraniano, le minacce del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, rivolte al suo omologo palestinese, Abu Mazen, sul riconoscimento dello Stato di Palestina e gli accordi tra Ramallah e Tel Aviv per ostacolare le indagini sui crimini di guerra compiuti durante la campagna militare israeliana a Gaza “Piombo Fuso”.
Oggetto dell’attenzione dei sevizi segreti sudafricani erano, però, anche le trattative del governo italiano con i terroristi di Al Shabaab per la liberazione dei due ostaggi. “Per nascondere il pagamento del riscatto – si legge in un virgolettato pubblicato dal quotidiano britannico – l’Aise (i servizi segreti italiani per le operazioni all’estero, ndr), l’Snsa (l’agenzia di sicurezza nazionale somala, ndr) e gli ostaggi si sono messi d’accordo per riferire ai media e all’opinione pubblica che la loro liberazione era la conseguenza di un’operazione delle forze speciali di sicurezza somale”. Versione che Debbie Calitz ha ripetuto anche durante una recente intervista a IlFattoQuotidiano.it, anche se la donna ha dichiarato che “a loro (i sequestratori, ndr) interessavano solo i soldi. Per il nostro rilascio chiesero 10 milioni di dollari”.
Come nel caso di Greta e Vanessa, l’allora ministro degli Esteri, Giulio Terzi, smentì le voci sul pagamento di un riscatto, offrendo a giornali e tv la versione “concordata” tra Farnesina e servizi segreti somali. Un atteggiamento, quello italiano, oggetto spesso di critiche da parte di alcuni Paesi occidentali, Stati Uniti e Gran Bretagna su tutti, che adottano la politica di non trattare con i terroristi, invitando tutti gli altri Stati a seguire il loro esempio per non incoraggiare i rapimenti e non finanziare gruppi armati terroristici.
Rapiti nel 2010 da pirati somali mentre, a bordo del loro catamarano, navigavano davanti alle coste della Tanzania, Bruno Pelizzari e Debbie Calitz sono rimasti in mano ai loro sequestratori per 20 mesi. Diversi i nascondigli dove sono stati potati tra la Tanzania e la Somalia e diversi erano anche i gruppi ai quali sono stati più volte venduti. “Solo dopo abbiamo saputo che si trattava di Al Shabaab – ha dichiarato Calitz – a noi si presentavano solo come ‘miliziani’”.
Anni dopo la liberazione, la donna ha raccontato in un libro e, successivamente, a IlFattoQuotidiano.it la sua esperienza: “Ci hanno tenuto in condizioni igieniche terribili e denutriti per tutto il tempo. Io sono arrivata a pesare 32 chili, mentre Bruno 45. Ci hanno tenuto in manette ininterrottamente per otto mesi, venivamo spostati continuamente in luoghi più sicuri, soprattutto quando sentivamo i colpi d’artiglieria esplodere vicino al nostro nascondiglio. Avevamo contratto la malaria e non ci hanno mai curato. Venivamo puniti, picchiati e io sono stata ripetutamente stuprata durante la prigionia”.