Nelle pagine si legge di quegli ufficiali italiani che giunsero al Sud come “esploratori in terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore”. Che, in forza della terribile Legge Pica (1863), si avvalsero dello “stato d’assedio” per reprimere, chiudendo entrambi gli occhi “su arbitrii, abusi, crimini, massacri”.
Guerri ha avuto il coraggio di dichiarare ormai obsoleta la “retorica che vuole in nostro Risorgimento fatto solo di eroi di martiri, di Bene opposto al Male”. Con una storia “alla quale manca tuttora una profonda opera di revisione storiografica. Oltre ottant’anni di storiografia ortodossa e prona alla politica (dal 1861 alla caduta del fascismo) hanno creato un vuoto di conoscenza che negli ultimi decenni non ci si è curati di riempire – specialmente sul brigantaggio – con studi approfonditi”.
È l’approccio che condivido: “Conoscere e rivedere il Risorgimento non significherà rimpiangere Radetzky o Francesco II, a seconda che il nostalgico si trovi a Milano o a Palermo”.
Insomma, l’autore rivela che il Regno delle Due Sicilie “non era il paradiso, ma nemmeno l’inferno d’Europa” come volle far credere la propaganda britannica. Dopo l’unità d’Italia “Attraverso un sistema di trucchi finanziari e irregolarità contabili, in un solo anno il governo piemontese “prelevò” 80 milioni di lire spendendone per il Meridione meno della metà”.
Quanto al numero dei poveri, Guerri smonta altri luoghi comuni: Nelle province napoletane e in Sicilia i poveri erano l’1,4%. Erano l’1,6% in Lombardia e il 2,11% in Romagna. I vituperati Borbone, ammette Guerri, trovarono il Sud in condizioni definite tragiche, nel 1734. E durante il loro regno apportarono novità importanti, anche se gli equilibri sociali non furono sconvolti. Se è per questo, neanche dopo Garibaldi. “L’industria si era sviluppata con ritmi altrove impensabili, impiegando fino a 1600000 addetti contro il milione e poco più del resto d’Italia”. Guerri parla anche della stasi sociale nel Regno delle Due Sicilie, che impedisce di parlarne come di un regno florido e sereno. Anche se, ammette, “disoccupazione ed emigrazione erano pressochè assenti e nei numerosi ospedali e ospizi prestavano servizio ben 9000 medici”. Dopo cosa successe? Garibaldi aveva promesso le terre ai contadini ma “il nuovo corso, come il vecchio, non poteva permettere che fossero toccati gli interessi dei latifondisti. Del resto, è ormai documentato l’aiuto decisivo che i Mille ricevettero sia dalla massoneria sia dalla mafia, che garantì appoggi logistici, rifornimenti continui e controllo capillare del territorio, oltre alle braccia armate dei picciotti”. Il malgoverno di quelle terre ignote, dopo la guerra al Brigantaggio, fece poi il resto. Il meridionale era dipinto ora come “canaglia” ora come “selvaggio e beduino”. “Razza volubile e corrotta”. E così, il generale Cialdini, “dopo i primi mesi fornì a Torino i risultati della sua azione, soltanto nel Napoletano: 8968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10604 feriti; 7112 prigionieri; 918 case e 6 paesi interamente bruciati […]”.Guerri parla apertamente di “episodi da sterminio di massa”.
E, a legger la storia della Guardia Nazionale, si colgono bene i veri risvolti sociali del Brigantaggio: il popolo ne era escluso: le truppe della Guardia erano guidate in molti casi da proprietari terrieri. Di fronte a tutto ciò, un moderato lombardo, Antonio Mosca, assai lucidamente, “aveva fornito una versione inaccettabile e per questo taciuta all’opinione pubblica. Vi si sosteneva che il brigantaggio aveva un carattere sociale, che era una reazione di classe ai soprusi della borghesia terriera, la quale usava l’annessione a proprio vantaggio […] Una simile interpretazione, per quanto corretta, finiva per attribuire le responsabilità a molti deputati meridionali, per lo più borghesi: accusandoli, in modo neanche troppo velato, di avere usurpato le terre demaniali destinate ai contadini”. Prevalse, ovviamente, tutt’altra lettura del fenomeno, estirpato manu militari per proteggere gli equilibri di sempre. La leva quinquennale, le tasse indirette, la propaganda della religione statolatrica, furono il seguito di questa fondazione, ma successe anche che “Nell’amministrazione locale si inserirono sempre più spesso esponenti della malavita: mafia, camorra e ‘ndrangheta nascono e proliferano in questo brodo di coltura di miseria patologica […]”.
E la fondazione dell’immancabile divario tra Nord e Sud: “Dal 1862 al 1897 lo Stato aveva speso 458 milioni – la maggior parte dei quali provenienti dalle casse del Sud – per bonificare le paludi della Penisola. Ebbene, furono spesi 455 milioni al Centro-Nord e solo 3 al Sud”.
Vi ricorda qualcosa?