Mostra tutto quello che gli resta del viaggio. Una ferita alla testa e due foto di sua figlia Aicha. Lamine torna in Guinea con la testa segnata per sempre dall’incidente di lavoro che ha avuto a Algeri. Un blocco, migrante come lui, gli è caduto in testa lasciandolo inanimato. I compagni di lavoro, stranieri anch’essi, ne hanno profittato per rubargli quanto portava in tasca. E poi l’ospedale per due settimane di incoscienza e convalescenza che si porta appresso per la vita. Lamine torna a casa e passerà prima a salutare la figlia e la madre della figlia. Mostra la foto della figlia in duplice copia, non si sa mai, se a caso una si perdesse nel viaggio di ritorno. Un vestitino colorato e treccine con perle di plastica. Il sorriso sullo sfondo di una città inventata dell’Europa. Alcuni palazzi senza finestre e un ponte che attraversa il mare pitturato di verde. Alla frontiera la polizia gli ha portato via il cellulare e 20 mila franchi. Quelli messi da parte per il regalo di sua figlia.
Tidane non ha terminato l’università. La sociologia non vale quanto una frontiera che si sposta secondo chi l’attraversa. Passato Gao, storica città del Mali, sono sedicenti jihadisti che lo rapiscono e gli prestano un cellulare per chiamare a casa. Gli indicano pure l’agenzia della capitale Bamako dove potranno far pervenire la somma. I genitori si indebitano per il figlio prigioniero dei ‘ribelli’ per una somma di 130 mila franchi. La rivoluzione mai nata e tradita si mantiene e vive per i pedaggi militanti. Le tasse rivoluzionarie di una volta sono tradotte in estorsioni migranti per chi cerca un futuro differente. A Algeri fa il manovale e non sopporta più di nascondersi a se stesso. La sua pelle nera diventa sinonimo di schiavitù e di espropriazione di forza lavoro. Dice che per rimanere in Algeria ci vogliono i nervi saldi. Persino i prezzi dei generi alimentari cambiano a seconda del colore e dello statuto del cliente. Tidane è partito stamane per la Guinea.
A Lamine la testa fa male e fatica a camminare. Faceva il commerciante di tutto e di nulla. Non sa ancora leggere e scrivere perché la famiglia era troppo povera per mandarlo a scuola. Parte due anni fa per l’Algeria. Transita il Ghana, il Togo e infine il Benin. Il Niger l’attraversa con gli occhi rivolti alla capitale di cui gli avevano parlato così bene. Avrebbe trovato casa, lavoro e soldi. Nulla di tutto ciò. L’amico che lo aveva invitato è partito prima del suo arrivo. E lui ha cominciato a fare il manovale finché il blocco di cemento lo ha ferito alla testa. Anche in ospedale era solo e il datore di lavoro si è dileguato per la paura di pagare una multa. Porta la foto della figlia in duplice copia. Una per il giorno e l’altra, più luminosa, per la notte. Il resto l’ha perduto come gli ultimi due anni che sono rimasti nella sabbia del deserto e in un cantiere alla periferia della città. Quando era ferito gli hanno rubato dalle tasche il poco che gli restava.
La più grande si chiama Erminie e somiglia tutta a sua madre. La seconde è Carmele e il piccolo di 3 anni Samuel. I tre sono nella foto e la madre di nome Adeline è in una a parte. L’unico che gli assomigli è il piccolo Samuel di tre anni. Viene dalla Costa d’Avorio e fa l’insegnante elementare. Porta le foto in un sacchetto di plastica trasparente per non dimenticare di tornare. L’Algeria non vale la pena e meno ancora l’Europa che invecchia e ripudia i bambini come pericolosi portatori di futuro. Aveva pensato di passare in Libia ma la moglie gliel’ha impedito dicendogli di guardare prima le foto. I vestiti sono colorati come i sorrisi. Le prime due hanno il naso e la bocca della madre. Il piccolino, Samuel, in foto è serio come suo padre, gli somiglia neanche fosse finto. Dice che anche lui farà il maestro elementare tra qualche anno. Torna assieme alle elezioni nel suo paese dove i candidati alla presidenza sono una decina. Le loro immagini sono portate in giro per la campagna elettorale appena iniziata. Le sue foto di famiglia, invece, sono come un biglietto per il ritorno a casa.