Da illustre sconosciuta a grande fotografa del ‘900. Vivian Maier, bambinaia di origini francesi, fino a pochi anni prima della sua scomparsa nel 2009 era solo un nome che non diceva nulla a nessuno. E ora i suoi scatti arrivano in Italia per la prima volta con la mostra “Vivian Maier street photographer” (al Man di Nuoro fino al 18 ottobre), curata da Anne Morin e realizzata in collaborazione con Chroma Photography. 120 fotografie scattate tra i primi anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, 10 filmati in super 8, una serie inedita di provini e un’accurata selezione di immagini a colori risalenti alle metà degli anni Settanta.
Tata per tutta la vita presso le case di famiglie benestanti di New York e di Chicago, nel suo giorno libero Maier ha coltivato per decenni la passione della fotografia, poi è andata in pensione e si è spenta all’età di 83 anni senza lasciare alcuna traccia di sé. Mai un’esposizione, mai una pubblicazione, mai un accenno alla sua “seconda vita”. Soltanto un archivio preziosissimo catalogato in maniera professionale con migliaia di rullini mai sviluppati, stampe, oltre 150mila negativi, film in super 8 e 16 millimetri, registrazioni, appunti, documenti di ogni tipo ignorati per anni e che, a sua insaputa, sono stati ritrovati rendendola celebre soltanto dopo la sua morte.
A custodire questo tesoro un magazzino, dove Vivian aveva stipato tutti i suoi averi e che è stato poi confiscato nel momento in cui ha smesso di pagare l’affitto. In seguito, quello che era contenuto tra i suoi quattro muri, era finito in blocco a una vendita all’incanto fino a quando un giovanotto di Chicago appassionato di fotografia, tale John Maloof, ha comprato all’asta rullini e filmini, rivelando al mondo la grandezza della tata-fotografa più famosa d’America.
Una Rolleiflex 6×6 per immortalare la società americana appena uscita dalla guerra con uno sguardo realistico. Il suo, sempre secco, austero, diretto, ma allo stesso tempo estremamente sensibile e femminile. Uno sguardo che amava soffermarsi sulla vita di strada, la quotidianità, le persone comuni protagoniste inconsapevoli. Su se stessa, magari davanti a uno specchio o, più spesso, davanti a qualche vetrina che rifletteva la sua immagine. Uno sguardo che coglieva l’essenziale anche da un movimento impercettibile. Fissava tutto in quello sguardo e scattava. I primi selfie della storia portano la sua firma, ma con un scopo ben diverso. Certamente non quello di mettersi in mostra, dato che per tutta la vita ha protetto i suoi lavori dallo sguardo altrui, ma per sottolineare quanto anche lei fosse parte integrante di quel mondo che passava davanti al suo obiettivo alla continua ricerca del senso profondo delle cose e della sua esistenza.
Fotografava ciò che vedeva e soprattutto come lo vedeva mettendo in risalto quei dettagli curiosi che raccontavano “il tutto”: una testa, una gamba, un semplice gesto tra la folla, lo scorcio di un edificio che rivelavano l’umanità non solo delle persone ma anche dei luoghi, colti al volo ma immortalati per sempre e in perfetto equilibrio quasi fosse una composizione studiata a tavolino.
Gli anni Settanta, come testimoniano le foto esposte al Man, segnano invece una svolta nel percorso di Vivian con il passaggio dalla Rolleiflex alla Leica, una macchina, dunque, non più all’altezza del ventre, bensì a quella dell’occhio, per scrutare la sua città da una nuova prospettiva e raccontarla con uno sguardo nuovo, diverso. Uno sguardo che per decenni ha custodito una passione segreta. E forse, proprio in quel segreto, c’è l’essenza della sua arte.