Leggiamo a proposito del film su Steve Jobs in fase di ultimazione che la moglie dello scomparso cofondatore di Apple non avrebbe gradito certe letture del film, che avrebbe fatto pressioni su alcuni possibili interpreti e che anche Tim Cook sarebbe contrariato da alcune scene, insomma – anche in casa Apple – siamo alla solita storia. Di un grande personaggio o se ne fa un santino stucchevole e zuccheroso, oppure salta subito la mosca al naso di amici, parenti e personaggi in qualche modo interessati. Nella memoria, nelle ricostruzioni, perfino nelle opere artistiche e di divulgazione, tutto ciò che non è piaggeria e slurpismo, va ostacolato e combattuto. La vita è storia (anzi storiografia), anche se vogliamo ignorarlo (e per questo pensiamo di poter fare a meno delle conoscenze storiche).
In Italia sono poche le imprese che ritengono importante aprire i propri archivi, fornire ogni documentazione e accettare che gli studiosi scrivano le cose belle, senza però tacere quelle brutte. In generale l’atteggiamento di un’impresa davanti a uno studente che deve fare una tesi di laurea o a uno studioso è di massima apertura, fintanto che non si rendono conto che non interessano solo i bollettini del loro ufficio marketing, allora scatta il «Verboten!». Eppure l’Iri aveva dato il buon esempio, aprendo le porte dei suoi archivi già negli anni ’50. La Fiat con fatica, ma da anni ha messo a disposizione le carte della sua storia aziendale. In realtà oggi quasi per tutte le grandi e «storiche» aziende italiane (più pubbliche che private) si trovano delle ricostruzioni abbastanza complete ed equilibrate, anche se c’è ancora qualche buco storiografico, come nei casi di Fininvest e Benetton, tra gli altri. A parte il discorso per le banche, non tutte sono come la Commerciale, quello che possiamo leggere in genere è abbastanza «ingessato», mancano indagini approfondite sulle ragioni autentiche delle scelte strategiche e sappiamo pochissimo sui processi di fusione a partire dagli anni ’90. Degli scandali (tra gli studiosi) poi non se ne parla. Le aziende medie e quelle di più recente istituzione (anche se quotate) in maggioranza invece fanno fatica ad uscire dallo schema di cui sopra e continuano a identificare la storia con la comunicazione, disprezzando la prima e facendo a pezzi la seconda.
Forse il rispetto verso la storia è cresciuto, ma certamente la comunicazione in Italia resta un’altra cosa, più difficile, molto più controllata, anche se molti passi avanti sono stati fatti, rispetto al passato. È una questione di mentalità e di consapevolezza della solidità aziendale, che a volte purtroppo non basta nemmeno. Più le questioni sono recenti e più spiccato appare il bisogno di impedire la diffusione di fatti «sensibili». La scarsa apertura, la poca trasparenza sono vecchie, pessime abitudini, che vanno di pari passo con con altri tratti dell’arretratezza economica italiana. Ma se fosse vero che questo vecchio retaggio di «disinformatia» è diventato il modo di concepire la comunicazione perfino per un’azienda come Apple, questo sarebbe un grave problema (prima di tutto ovviamente per Apple). Non uno, ma cento passi indietro.
La società di Cupertino, che oggi patrimonializza all’incirca 170 miliardi di dollari, ha fatto della trasparenza, della correttezza e dell’attenzione al consumatore la propria bandiera. Su queste doti, più che sui prodotti ha costruito la propria fortuna e il proprio brand, al punto che non sappiamo se passerà alla storia per l’Iphone, ma certamente non ci sarà libro che ometterà la campagna anti-IBM-Grande Fratello, nello spot realizzato da Ridley Scott in occasione del lancio del Macintosh. Steve Jobs fu un grandissimo imprenditore, probabilmente il più grande del XX secolo, più di Ford, ma non merita di essere santificato, né lui stesso l’avrebbe desiderato. Era pieno di difetti, non supererebbe mai nessun processo di beatificazione. Nella vita comune, come sul lavoro era un tipaccio da non presentare alle proprie figlie, ma questo non intacca minimamente la sua grandezza imprenditoriale, non può toglierli i grandissimi meriti anche sociali, che egli ha avuto. Ma se alla comunicazione Apple non lo capiscono o non riescono a farlo capire è un problema serio, perché in genere questa idea della comunicazione da paese dei campanelli prelude il declino di un’azienda.