Sull’ultimo numero de L’Espresso è stato pubblicato un pezzo in cui si chiede se il femminismo ha perso. Tra un intervento di femministe anni ’70 e quello di figure più o meno se-non-ora-quandiste – che mostrano tutta la loro ambigua essenza quando parlano di un pericolo che giungerebbe dall’Islam o quando descrivono le moraliste Snoq come quelle che avrebbero reso visibile un decennio di lotte, in realtà annacquate, normalizzate, scippate a chi le lotte femministe le ha praticate e le pratica sul serio – c’è qualche dichiarazione che vale la pena approfondire.
Chiara Saraceno, per esempio, parla di danni fatti dal femminismo della differenza: “che ha avuto più visibilità, ha creato una sorta di teologia, producendo un linguaggio oscuro, ostico, moraleggiante. Un modo di parlare, e di tenere separati il mondo di lui e il mondo di lei, nel quale le più giovani non si ritrovano. Ne hanno, anzi, paura e fastidio: se la denuncia della mancata parità le getta nel ruolo di vittime non ne hanno alcuna voglia.”
Il femminismo della differenza è diventato un dogma, mai rimesso in discussione, chiuso in se stesso, le cui credenti rispondono in maniera spocchiosa a chiunque lo metta in discussione. D’altronde è stato il femminismo egemone, in Italia per tanti anni e ha potuto condizionare l’accesso ad altri saperi femministi, al punto che, non fosse stato per internet e i nuovi e più facili mezzi di comunicazione, altre voci sarebbero ancora oggi “invisibilizzate”. Il femminismo mainstream è quello che ha scelto per noi quali pubblicazioni, quali parole veicolare, ha aperto le porte ad altre donne solo quando erano fedeli discepole che usavano lo stesso linguaggio d’accademia.
Erano femministe della differenza quelle che immaginavano, in senso biologicamente riduzionista, il mondo diviso in donne e uomini: donne, tutte vittime, uomini, tutti carnefici, intrappolati in una dicotomia rigida che non tiene conto, ancora adesso, degli altri generi esistenti.
Nel pezzo si parla anche di una “faccenda più complessa” giacché il nemico non è l’uomo in quanto tale ma una cultura che viene veicolata da chiunque. I “maschi” non sono più padri padroni. Non sono uomini duri, incapaci di mostrare attaccamento emotivo agli affetti. Sono in una fase di riappropriazione di nuove identità, percorrendo con difficoltà una strada fatta di nostalgici e riposanti riferimenti al passato e di più difficili riferimenti al futuro. Secondo “The Economist”, gli uomini sarebbero addirittura “il sesso più debole” delle società avanzate.
Quelle che sono venute dopo – le Snoq – non sono state meno inadeguate. Incapaci di fornire uno sguardo post coloniale, antirazzista, anticlassista, dunque intersezionale, hanno mirato alla sconfitta del nemico giurato delle cosiddette forze istituzionali del centro sinistra per sconfiggerlo sul piano pubblico a partire dal supporto dato alla sua ex moglie, Veronica, o alla parlamentare Bindi, entrambe, impropriamente, elette a simboli femministi. Era l’epoca in cui poco importava se le donne del governo di centro destra ricevevano una quantità enorme di insulti sessisti legittimati dalla modalità moralista delle Snoq.
Donne benestanti, a volte perfino antiabortiste e omofobe, si dissero in grado di parlare in nome delle donne, descrivendo una separazione tra le donne per bene e quelle per male, ignorando la grave questione economica, il welfare che vede tuttora la famiglia come ammortizzatore sociale assieme al lavoro di cura che viene svolto da tante in modo gratuito. Donne benestanti sfruttarono un ampio supporto mediatico per rubare parole e itinerari di lotta rendendoli quella cosa insignificante, puritana, a braghe calate di fronte al partito, per nulla rivoluzionaria, che sono diventati nel 2011.
L’articolo su L’Espresso continua e parla del mancato coinvolgimento degli uomini, cosa alla quale è stato in effetti posto rimedio negli ultimi anni. Il punto è che la maniera di coinvolgere gli uomini nel dibattito antisessista è sempre stata piuttosto ridicola. C’è chi ha rivolto agli uomini appelli commoventi affinché patissero un tempo infinito, tra pentimenti ed espiazioni, per poi poter mostrare una enorme dose di paternalismo. C’è l’altra che, considerandoli tutti violenti e dunque per responsabilizzarli, invita gli uomini a resettarsi il cervello per poi farsi rieducare dalle femministe. Gli uomini, dunque, non sono stati coinvolti proprio niente, quello che dicono a volte può diventare spiacevole perché non si accetta il loro ben distinto livello di autonomia intellettuale. Quel che è stato fatto si riassume in un concetto semplice: certe “femministe”, ovvero quelle che io chiamo Donniste, hanno posto gli uomini di fronte ad una scelta. Possono diventare patriarchi “buoni” adatti a tutelare le fanciulle indifese. Diversamente saranno considerati carnefici. Tutti.
Loredana Lipperini sul femminismo che diventa impopolare dice: “E responsabilità anche da parte di quella narrazione che predicava odio verso i maschi, disgusto verso il sesso: ha schiacciato le generazioni successive”. E vale la pena ricordare che esiste chi, negli anni, ha riconosciuto che alcune femministe sono state ancelle del capitalismo, giacché hanno predicato quell’odio trascurando di parlare di differenza di classe. I poveri e le povere di tutto il mondo sono infatti alla mercé di abusi indiscriminati che possono venire anche da donne bianche, occidentali, cis. Le stesse che sono interessate alle donne migranti solo in senso neocolonialista e che diventano particolarmente moraliste nei confronti di donne che scelgono di vendere servizi sessuali o fare film porno. Un sintomo del fallimento di un certo femminismo in realtà è anche questo: sono assolutamente chiuse e non accettano di riconoscere l’esistenza di altri soggetti femministi a partire da donne migranti, da sex workers, dalle precarie, dalle trans.
Il filosofo Slavoj Zizek, infine, così ricorda: «Non credo in una soggettività maschile fallocentrica, imperialista, guerrafondaia, e una femminile ecologica, armoniosa, olistica, pacifista e cooperativa». Da una parte il bello e buono delle donne, dall’altra il maschile selvaggio e oppressore: non funziona.” E in fondo sta dicendo quello che io cerco di raccontare da tanto tempo. Se il femminismo non si scosta da questa superata visione del mondo non solo ha perso ma può essere considerato nemico di tante donne. D’altronde cos’è un nemico se non quella figura autoritaria che impone un credo, normativo, che non lascia libertà di scelta e che dall’alto rilascia regole morali nei confronti delle quali si chiede una totale adesione?