Il capo dell’ufficio del Washington Post a Teheran è stato arrestato nel luglio del 2014. Il processo si è svolto a porte chiuse e l'executive editor del quotidiano americano ha definito il processo "una vergogna, un miscuglio malato di farsa e tragedia".
Jason Rezaian, il corrispondente del Washington Post che si trova in carcere in Iran da oltre 400 giorni perché accusato di spionaggio, è stato condannato. Il giornalista, arrestato nel luglio 2014, rischia da 10 a 20 anni di reclusione. La notizia è arrivata dalla televisione iraniana, dove il portavoce giudiziario Gholam Hossein Mohseni Ejei ha detto: “E’ stato condannato ma non ho dettagli sul verdetto. C’è ancora la possibilità di ricorrere in appello, non è definitiva”. Rezaian e il suo legale, Leila Ashan, hanno 20 giorni per impugnare la sentenza.
Il processo del giornalista, capo dell’ufficio del Washington Post a Teheran, si è tenuto a porte chiuse ed è stato fortemente criticato sia dal governo americano che dalle organizzazioni per la libertà di stampa. Oltretutto il procedimento si è concluso due mesi fa e nessuno ha mai fornito una spiegazione riguardo il ritardo del verdetto. “A prescindere dalla condanna, gli Stati Uniti continuano a chiedere al governo iraniano di far cadere tutte le accuse contro Jason e di rilasciarlo immediatamente”, ha detto John Kirby, il portavoce del Dipartimento di stato americano.
Il giornale ha ferocemente respinto le accuse di spionaggio e l’executive editor Martin Baron ha definito il processo “una vergogna, un miscuglio malato di farsa e tragedia”. Secondo il quotidiano americano il portavoce Ejei, dicendo che la sentenza non è definitiva, sembrerebbe suggerire che il governo iraniano considera Rezaian un candidato per uno scambio di prigionieri. Il mese scorso il presidente iraniano Hassan Rouhani ha detto che potrebbe attivarsi per il rilascio di tre americani detenuti in Iran, incluso il reporter, se gli Stati Uniti liberassero alcuni prigionieri iraniani detenuti negli Stati Uniti per aver violato le sanzioni stabilite contro il loro Paese.