Dolce amico, fragile compagno mio che hai tentato sotto le tue dita di fermarla, la vita: come una donna amata alla follia la vita andava via: e più la rincorrevi e più la dipingevi a colpi rossi per tenerla stretta, gialli come dire “Aspetta!”, fino a che i colori non bastaron più (Roberto Vecchioni, “Vincent”).
Ora capisco cosa cercavi di dirmi, quanto hai sofferto per la tua sanità mentale, come hai provato a liberarli, loro non ti davano retta, non ti danno retta tuttora forse non lo faranno mai (Don McLean, “Starry, starry night”).
Una delle “malattie” del nostro presente sono i cosiddetti “selfie”. Dovremmo anche aprire una parentesi sulla nostra italiota voglia-necessità-sudditanza-schiavitù di rendere presentabili come spot luminescenti questioni quotidiane con elementi altisonanti anglofoni. Il selfie, lo scatto che ha sia come oggetto che come autore noi stessi, non è altro che l’autoritratto, il click con il proprio smartphone, l’oggetto che portiamo sempre con noi, il nostro amico di malinconie e guerriero contro la noia, quello che, isolandoti, ti fa sentire vicino a tutto quello che accade, entrandovi dentro ma rimanendone fuori, con l’illusione di vivere l’evento ma senza il pericolo della realtà che monta, s’accende, si fa.
L’autoscatto era la patria di Andy Warhol, l’autoritratto era la mancanza di modelli, Van Gogh, o la necessità di scavare a fondo nei propri pensieri, Ligabue. Il ritrarsi era un modo pratico di capire, progredire, cercare linee e tratti come quello di indagare, dietro il paravento della scorza della pelle e rughe, che cosa vi fosse nascosto nel sarcofago, nello scrigno delle immagini, delle visioni che divenivano colori e pennellate.
Tirare una linea, ardita e irta, complicata di curve a gomito, tra il Vincent dei girasoli e la Cina, non tanto intesa come Ming o bandiere rosse, ma quanto come la riproducibilità di massa dell’opera stessa per fini commerciali, è esperimento alto, di frizioni e slanci, che Simone Perinelli (qui fa un salto rispetto alle sue produzioni precedenti da monologhista puro) mette sul piatto nel suo “Made in China”, scagliando i dadi della sua dialettica, del suo stare sul palco, della sua scrittura vorticosa e surreale, del suo corpo che si fa parola, sul tavolo verde della riflessione, dell’immagine a specchio tra la creazione e la sua scadente copia.
“Ogni cosa è un autoritratto”, ogni cosa è illuminata, ogni atto è responsabilità, ogni scelta ricade sull’oggi, su di noi, sugli altri intorno, e ogni minimo attimo insignificante ha la potenza della valanga e ci identifica e ci fa, ogni volta, essere sempre un po’ più noi. L’autoscatto, l’autoritratto, sono l’incrocio tra le ascisse di spazio e tempo, creano una croce, un “io sono qui”, un taglio di Fontana nella tela immensa del reale che ci considera spilli microscopici in un pagliaio, giallo abbagliante, infinito. Si sublimano i corvi neri, la sedia vuota, la camera, la notte stellata, si mantecano in un soufflé cremoso, morbido ed acido dal quale emerge la V di Vincent come la V delle dita che le ragazze orientali splendono nelle fotografie, alla V che identifica il volo degli uccelli, alla V delle forbici rotte dal sasso della morra, appunto cinese. Cerchiamo noi stessi attraverso le copie bidimensionali che produciamo, allontanandoci così da quell’intimo che vorremmo scovare: “Spesso le persone fanno arte, ma non se ne accorgono”, diceva l’autore de “I mangiatori di patate”.
Visto al Teatro Era, Pontedera (PI), il 1 ottobre 2015.-