Roma. Si è appena conclusa una storia incredibile, fondata su sarcasmo, denigrazione, calunnia, uso deliberatamente squilibrato dei media, necessità di cancellare il passato, urgenza, anche teatrale e scenografica, di creare una città disastrata. E un matto solitario e vagante fra le rovine, detto “il sindaco per caso” che se ne deve andare. Mi sembra utile un inventario dei tanti pezzi di realtà sconnessa e di pura invenzione che sono stati usati nel gioco. I protagonisti di questo gioco, che è certamente un gioco sporco, sono due, la città di Roma e l’ex senatore Ignazio Marino.
Roma non è affatto la città in rovina che è stata creata fotografando rasoterra bottigliette di plastica abbandonate, così come Ravenna non è affatto la città con le case colorate che si vedono nel film di Antonioni Deserto Rosso. Ci vuole un regista. Giornali e tv si sono prestati, una volta capito che non c’era pericolo. Il nuovo sindaco era solo. È rara l’occasione di poter partecipare liberamente a un simile gioco. Ma ci vuole anche un produttore. La precedente amministrazione di destra (destra estrema, compresi i capi della sua corruzione) era finita nel fango, fra imputazioni, accuse, processi pendenti, rinvii a giudizio per crimini gravi, penetrazione profonda del malaffare nella città Capitale, che ha indotto la magistratura a usare le parole “mafia capitale”.
Ma gli episodi insurrezionali sono cominciati subito. Spariscono i vigili, non arrivano gli autobus, si rompe continuamente la metropolitana, volete altro? Quest’ultima fase, diciamo dopo le ferie, di ininterrotta aggressione a Marino è cominciata lo stesso giorno in cui il Tribunale di Roma ha notificato ad Alemanno la fine delle indagini che precede il rinvio a giudizio. Tre righe per Alemanno, tutto il resto della stampa e della televisione italiana per un affollato processo popolare allo strano sindaco che si è (forse) appena concluso.
Marino è stato un sindaco strano in due modi: per qualche sfortuna, e per qualche inspiegabile errore. È stato uomo libero che arrivava col segno di un partito (dunque meno libero), che però non c’era e che non lo voleva, salvo manovre un po’ sovietiche di sostegno apparente (tipo i tre baci di Breznev prima di farti scomparire dalla enciclopedia sovietica).
Non aveva la Chiesa, pilastro di ogni sindaco di Roma (non parlo di Francesco, ma di quella di sempre, che dura). Era incompatibile con i gruppi di interesse che hanno molto, comprano tutto, hanno sempre, come nei mitici anni 50, sogni di cemento, e nomi che sono una garanzia. Una cosa è stata subito chiara: con Marino, il mondo che tiene in mano Roma (e il suo “sviluppo”) non va da nessuna parte, con tutte quelle fisime di legalità, e il magistrato assessore. Bisognava giocare subito la carta della città in decadenza (del resto vera, per i costruttori, quando non costruiscono).
Lo hanno fatto su larga scala e ha funzionato. Nessuno si è chiesto come poteva decadere Roma dopo Alemanno. E come possano improvvisamente, cadere a pezzi, a causa di Marino, i tesori archeologici di Roma (vedi uno stentoreo editoriale de Il Tempo) dopo duemila anni di resistenza e alcune guerre e invasioni.
Resta l’altra stranezza. Il sindaco lasciato solo (niente partito, salvo finzioni, niente chiesa, niente gruppi di interessi) ha giocato tutto sulla sua solitudine, trasformandola in una sorta di testardaggine. Immaginate di togliere dalla sequenza di eventi che ha portato alle dimissioni la vacanza lunga e lontana, il viaggio papale e la strana, non chiarita vicenda degli scontrini, e capite subito che, senza questi incidenti, si sarebbe fatta più dura la campagna di chi non poteva permettersi Marino sindaco. Più dura però vuol dire più difficile per la folla in attesa di appalti, ma anche più violenta nei confronti di Marino. C’è da immaginare che qualcos’altro fosse in serbo. Marino doveva morire e non credo che i venti giorni lo salveranno. Non tutti, non sempre possono fare il sindaco. Almeno non in città come Roma.
Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2015