A Boston muovendosi in città è più facile che lo sguardo incontri le acque di Charles River o di Mystic River – quello del film di Clint Eastwood con Sean Penn – che quelle dell’Oceano Atlantico, negli ultimi due secoli progressivamente allontanato dai continui riempimenti finalizzati all’incremento di suolo edificabile. E pure la forma urbana, verso oriente, si poggia alla frastagliata linea di costa che oggi la determina in modo sostanziale.
Il rapporto tra la città e il mare è in realtà forte e non solo per le originarie ragioni insediative, ma perché è stato cercato, voluto, progettato. Un chiaro esempio è il Boston HarborWalk, una “passeggiata” lungomare attrezzata lunga circa settantacinque chilometri che segue, con la maggiore continuità possibile, la costa.
Sul limite superiore di South Boston in prossimità di Downtown, il percorso del Boston HarborWalk raggiunge l’area di oltre ventotto ettari di Fan Pier, lussuoso sviluppo immobiliare con innumerevoli servizi e parti ancora non recuperate. Lì, tra capannoni del porto, circondato da centinaia di auto in sosta nei parcheggi a raso, inaspettatamente si eleva un edificio dalla forma di un foglio che si piega a partire da terra, e su cui è poggiato un parallelepipedo alquanto schiacciato, senza colori se non le variazioni di grigio date dalle grandi doghe in metallo o di vetro, trattato in diversi modi, che conformano le facciate; un volume non particolarmente appariscente se non per il forte sbalzo che si protende verso lo stretto braccio di mare che lo separa dalle piste del Boston Logan Airport.
Si tratta dell’Institute of Contemporary Art, aperto nel 2006 e pensato, come spiegano i progettisti Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio, gli stessi della universalmente celebrata High Line a New York, per essere luogo della cultura con finalità in un certo senso opposte, ovvero sia spazio dinamico per attività pubbliche e sociali che spazio di contemplazione individuale per l’arte contemporanea.
L’edificio a partire dalla hall vetrata – un grande vuoto dominato all’ingresso da una pittura murale, poi quello spazio è subito schiacciato davanti ai desk – è sviluppato su tre livelli collegati da un ascensore di quindici metri quadri, anch’esso con le pareti in vetro, vera e propria stanza mobile trasparente che, mentre si sale, permette di vedere attraverso i diversi spazi del museo e spingere lo sguardo fino all’acqua. Il montacarichi in realtà è solo una sorta di anticipazione di quello che sarà l’esperienza del muoversi attraverso gli spazi dell’edificio, che si rivelerà una “macchina per guardare”: certamente, come ovvio, le opere esposte al suo interno, ma anche fuori, al mare del porto e alle torri di downtown.
È soprattutto il lato nord dell’edificio, quello rivolto al centro città e al porto, che offre almeno tre possibilità molto diverse allo sguardo verso l’esterno: dal teatro, dalla mediateca, dalla cosiddetta Long Gallery. Il teatro al primo livello è dotato di oltre trecento posti; il fondo della scena, grazie alle alte pareti in vetro, è in realtà come un grande affresco in movimento che ha per soggetto la città, con i riflessi delle sue torri di giorno e le luci di notte, e le acque del porto con l’andirivieni continuo di natanti di ogni tipo. La sala è stata concepita in continuità con i gradoni all’aperto e il deck antistante che, coperti dallo sbalzo delle sale espositive, sono parte dello spazio pubblico del Boston HarborWalk.
Al piano più alto delle gallerie espositive, lo spazio, a seguito di impegnative scelte strutturali, è completamente libero ed è caratterizzato dalla chiusura verso l’esterno delle pareti perimetrali; la luce piove solo dall’alto, regolata da un efficiente sistema di shed. All’uscita occidentale delle sale, per raggiungere il percorso sul lato orientale, si attraversa la Long Gallery, ampio corridoio vetrato che corre lungo tutta la facciata nord offrendo uno spettacolare punto di vista di nuovo sulla città e il porto, con la sensazione che ci si trovi sospesi sull’acqua.
Il Digital Media Center è una sala a gradoni fortemente inclinata verso la parete di fondo di solo cristallo che la chiude a nord e che, proprio in virtù della pendenza, inquadra come un enorme cannocchiale esclusivamente l’acqua che diventa, con i suoi infiniti movimenti e riflessi, piano visivamente instabile. All’esterno tutto il volume della mediateca, grazie ad un ulteriore virtuosismo strutturale, fuoriesce dall’intradosso del grande sbalzo delle sale espositive, come un abbaino sottosopra. Dalla città i tre “occhi” del museo, come delle vetrine, offrono le viste delle silhouette dei visitatori che appaiono e scompaiono continuamente su diversi punti della facciata.
Quest’opera è la prima realizzazione di dimensioni importanti dello studio newyorchese (a cui dal 2004 si è aggiunto Charles Renfro) dopo anni intensi di ricerca teorica e installazioni anche di grande successo come “Blur” del 2002 sul lago di Neuchatel. La successiva entrata nel novero delle archistar, con un numerose e prestigiose commesse pubbliche, ha coinciso con una virata espressiva verso una sorta di barocco contemporaneo che affida molto alla sperimentazione sulla pelle dell’edificio, come nel recentissimo The Broad a Los Angeles o nel Center for the Creative Arts della Brown University a Providence, ma anche al trattamento non ortodosso delle tipologie, come negli interventi al Lincoln Center di New York.
Questo edificio per certi aspetti può sembrare una sorta di declinazione contemporanea di temi lecorbuseriani, “machine à voir” con una concessione alla moda delle piegature stile folding in voga nelle architetture di inizio millennio; potrebbe essere un caso, ma il disegno dei parapetti esterni è molto simile ad uno di quelli realizzati per la casa al Weissenhof di Stoccarda del 1927 da Le Corbusier. I.C.A. è un’opera che riesce ad andare oltre la sua stessa funzione museale per stabilire una relazione nuova con gli elementi – il porto e downtown – che caratterizzano il sito nel quale è stata costruita.