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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha un concetto sportivo della vittoria politica. Nel calcio, nella pallacanestro, nella pallamano, l’importante è vincere e Netanyahu – questo non lo si può negare – è il grande vincitore delle ultime elezioni israeliane (quelle che lo annunciavano, almeno nei sondaggi, perdente).

Ma la vittoria in politica è la madre della responsabilità. Se una società dà fiducia a un leader politico, egli ha l’obbligo di cercare di risolvere i problemi. La società israeliana che Netanyahu ha governato per lunghi periodi negli ultimi vent’anni ha problemi gravi. Il più acuto è il terrore quotidiano nelle città israeliane, fatto anche di ragazzi di 13 anni che accoltellano i loro coetanei israeliani. Solo martedì (13 ottobre) sono stati assassinati due civili in atti terroristici che non hanno niente di organizzato e che certo non possono essere chiamati “terza intifada”, si tratta di violenza fai da te che sceglie quasi esclusivamente civili inermi in bus per strada o in fermata del trasporto pubblico.

Nei mesi trascorsi dalla sua vittoria, Netanyiahu non ha proposto ai palestinesi nessun piano che potesse sbloccare la situazione nei Territori. Com’è evidente, io non parlo di trattative di pace perché i diversi governi Netanyahu non hanno mai fatto nessuna trattativa seria in questo campo.

Il primo ministro, come tanti della destra israeliana, ritiene che si possa “amministrare il conflitto”, cioè non compiere nessun tentativo per risolverlo, ma tenere la frustrazione palestinese a fuoco basso e continuare a vivere come se non esistesse nessun problema fra noi israeliani e i nostri vicini.

La retorica dei governi Netanyahu verso un leader molto pragmatico come Abu Mazen ne è un esempio emblematico. Il vecchio leader palestinese, di cui anche i capi dei servizi segreti israeliani confermano i tentativi anche in questi giorni di fermare gli attentati, viene definito “uguale a Hamas”, “vicino all’Isis” e “amico dei terroristi”. Questa retorica serve appunto ad “amministrare il conflitto”, pensando che si possa raccontare agli israeliani che la colpa della non trattativa di pace sia tutta di Abu Mazen, Obama o degli arabi-israeliani.

Proprio in questi giorni è stata pubblicata una ricerca in Israele sul futuro economico dello stato ebraico. Secondo il prof. Dan Ben David, se i governi israeliani non cambieranno l’indirizzo degli investimenti ci sarà un crollo nell’economia – economia della quale Netaniahu parla sempre in termini di solidità e di prosperità. Oggi, all’apertura della sezione invernale della Knesset, il sociologo che ha dedicato 15 anni a questa ricerca presenterà le sue conclusioni sulla situazione israeliana attuale e futura, della quale Netanyahu e i suoi alleati politici hanno e avranno grande responsabilità. Le ricette che propone Ben David sono semplici e di buon senso: coinvolgere in modo importante l’ortodossia israeliana e gli arabi israeliani nel mercato del lavoro (in cui sono presenti in percentuali basse) e tornare a investire nella scuola, nell’università e nella sanità nazionale. Ovvero creare un’“economia di pace” e non di perenne conflitto.

Chi legge questo post noterà che non faccio alcun accenno alla responsabilità dei leader politici arabo-israeliani sulle violenze delle ultime settimane. È in atto una vera e propria istigazione alla violenza da parte di questa classe dirigente, per la precisione dei suoi leader legati all’estremismo musulmano, che ha notevole presa tra gli arabi israeliani. Non ho dedicato molto spazio a questo fenomeno perché penso che gli intellettuali israeliani debbano chiamare il loro governo alle sue responsabilità. Magari i colleghi palestinesi o arabo-israeliani capiranno che un Medioriente meno violento è interesse di tutti e cercheranno di fermare chi tenta di rendere questo conflitto un sanguinoso conflitto fra religioni usando Gerusalemme, una città che ha il potenziale di accendere tutto il Medioriente.

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