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Israele, l’Intifada dei pugnali

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In Israele si ha l’impressione di essere ritornati ai tempi della setta degli assassini, un gruppo scismatico degli ismaeliti che praticava l’assassinio politico facendo uso dei pugnali per colpire gli avversari politici o anche religiosi. Alla fine del Medioevo questa setta scomparve per confluire nel ramo più importante degli Ismaeliti. La pratica dell’accoltellamento è rimasta, divenendo un modo arcaico per esprimere il dissenso e, nel caso di Israele, un dissenso che richiama alla nostra memoria il modo in cui vive il popolo palestinese. Questo non è bastato nel passato e non basta oggi per risolvere definitivamente il conflitto israelo-palestinese.

Molti studiosi sostengono che Israele si stia avviando la Terza Intifada a causa dell’escalation di tensioni verificatesi a Gerusalemme. Altri, invece, sono convinti che da entrambe le parti non vi sia un rischio di escalation quanto piuttosto l’intenzione di contenere gli episodi di violenza.

Un dato di fatto è che il premier Netanyahu ha ribadito che userà il pugno di ferro nei confronti dei nemici di Israele. Quindi una accelerazione della demolizione delle case dei “terroristi” e un incremento degli arresti preventivi anche se l’interessato non risulta di fatto colpevole di un reato specifico.

Sono state demolite a Gerusalemme le case di due palestinesi, una terza, invece, è stata in parte murata. Le abitazioni appartenevano, secondo le autorità, a dei responsabili di atti terroristici compiuti nel 2014: rispettivamente Muhammad Nayef Javis (che nell’agosto 2014 provocò la morte di un cittadino israeliano travolgendo un autobus con una ruspa) e di Abu Jamil Jassan (che nel novembre 2014 partecipò a una strage in una sinagoga dove cinque ebrei ultraortodossi furono uccisi). La casa murata apparteneva, invece, a Muattaz Hijazi, un palestinese che nel novembre 2014 attentò alla vita di un rabbino, Yehuda Glick, esponente di un movimento israeliano di estrema destra. Tutti e tre i responsabili sono stati uccisi, secondo le fonti militari israeliane.

L’opposizione israeliana ha duramente attaccato il governo per queste misure eccessivamente dure e ha incitato Netanyahu a dimettersi. La destra, invece, incita il governo a ripetere l’operazione “Scudo difensivo”, l’azione militare del 2002 in Cisgiordania.

Le recenti demolizioni delle abitazioni non sembrano, però, essere l’unica strategia punitiva compiuta dalle forze israeliane. Come strumenti deterrenti, infatti, sono stati approvati arresti preventivi per individui giudicati “sovversivi”, misure più dure per chi “istiga” alla violenza, maggiori truppe in Cisgiordania e a Gerusalemme e più demolizioni. La risposta palestinese non si è fatta attendere. Questi episodi – che hanno causato lesioni a 499 palestinesi negli ultimi due giorni, così come denuncia la Mezzaluna Rosa – saranno sottoposti ai Tribunali internazionali.

Tuttavia la vera domanda sullo sfondo è chi possa beneficiare di queste ventate periodiche di violenza e a quali interessi rispondano, da una parte e dall’altra. Mahmud Abbas ha pubblicamente dichiarato di non aver niente da guadagnare da questi episodi e, anzi, di non voler cedere alla volontà di alcuni gruppi palestinesi – come la Jihad islamica –  e di Israele di provocare un’escalation, che andrebbe a tutto detrimento dell’Anp.

Hamas potrebbe essere intenzionato a un nuovo round di violenza per deviare l’attenzione dai problemi interni alla Striscia di Gaza e lo stallo che si trascina da mesi nei negoziati interni con l’Anp per la creazione di un nuovo governo di unità nazionale, soprattutto considerato che i 5 attentatori responsabili dell’omicidio della coppia Henkin sarebbero stati membri di Hamas. Tuttavia, anche Israele, senza aver provocato direttamente la violenza, potrebbe beneficiare di questa nuova esplosione: approfittarne per stringere ulteriormente la morsa intorno a Gerusalemme – già annunciata dal ministro dei Trasporti Katz con un blocco dei quartieri arabi della città -, nonché per ampliare la libertà di manovra dell’esercito in Giudea e Samaria ed espandere ulteriormente gli insediamenti, come richiesto apertamente dal ministro Bennet dopo gli attentati.

Ma vi è un’altra ragione a determinare questo stato di cose. La politica restrittiva israeliana verso il luogo di culto più importante per i palestinesi: Al Aqsa. Non bisogna dimenticare il valore simbolico e identitario che questa moschea ha per molti giovani palestinesi, i quali esprimono la loro rabbia contro il governo israeliano che tende a rendere sempre più rigide le regole per potersi recare sulla spianata delle moschee.

Abbastanza per concludere che la violenza a Gerusalemme non sia affatto il prodotto di un agglomerato di fattori inspiegabili, della crudeltà di una parte o dell’altra o di una irrazionalità profonda, ma sempre il risultato di un calcolo ponderato delle opportunità di cambiare lo status quo che si offrono ai vari attori politici, pronti a capitalizzare gli effetti così ottenuti.