Dopo una domenica pomeriggio all’insegna del ciclismo che saluta l’annata 2015 con quattro successi italiani in ogni parte del mondo (Viviani ad Abu Dhabi, Mattia Gavazzi in Cina, Sonny Colbrelli al Gp Beghelli e uno splendido Matteo Trentin nella Parigi – Tours) decido che è arrivato il momento di vedere “The Program”.
Del film di Stephen Frears sulla figura di Lance Armstrong si è già detto molto, quasi tutto. La visione che questo film offre del ciclista americano ma più in generale del ciclismo è tratta da Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong libro autobiografico del giornalista David Walsh, quindi io aggiungo solo la mia impressione e le mie sensazioni da appassionato che ha visto alternarsi la finzione dell’opera cinematografica alle immagini di repertorio che ci mostravano la realtà dei 7 Tour de France vinti consecutivamente, del fenomeno Livestrong, del personaggio Lance Armstrong. Già, ho usato la parola realtà per descrivere gli anni che il texano ha passato in sella, prima e dopo essersi rialzato dal letto degli ospedali che lo hanno curato dal cancro.
Nessun pietismo da parte mia, Lance è sopravvissuto e ha reagito a modo suo, da miracolato, esasperando le sue attitudini e la sua voglia di competere. Doveva competere con la realtà di un ciclismo che conosceva prima del tumore e che sembrava dovesse cambiare in concomitanza col suo rientro (dopo lo scandalo Festina). Sembrava solamente, perché anche dal film si capisce che tra il prima e il dopo nulla era cambiato, se non la ferma volontà di ogni corridore a “percorrere” certe strade. Lance Armstrong è stato inchiodato e la motivazione dell’Usada, l’agenzia antidoping statunitense rimbomba nelle orecchie “Le prove dimostrano al di là di ogni dubbio che la Us Postal ha messo in atto il programma di doping più sofisticato, professionale e di successo che lo sport abbia mai visto”. Armstrong non era solo, è chiaro, ma era solo quando staccava tutti in salita, o infliggeva pesanti distacchi a cronometro solo perché utilizzava “il programma di doping più sofisticato”?
Torno al film perché le risposte alla mia domanda sarebbero infinite: i punti chiave, quelli che mi hanno fatto riflettere sono due. Nella parte inziale Lance, parlando ad una platea di sostenitori di Livestrong, la fondazione che raccoglie fondi per la ricerca sul cancro, ricostruisce il suo barcollare nella corsia dell’ospedale ma davanti ai visi adoranti delle persone che pendevano dalle sue labbra racconta di non aver ceduto alla richiesta dell’infermiera che gli offrì una sedia sulla quale accasciarsi. “La rifiutai perché io devo percorrere la mia strada da solo, devo farcela”.
Lance esce dalla sala consapevole della bugia (a fin di bene) detta per dare speranza. L’altro episodio, nella parte finale del film, quando l’ex compagno di squadra Floyd Landis, già squalificato per doping, lo chiama al telefono chiedendogli di riprenderlo in squadra. Lance era pronto al rientro nel 2009 ma con cinismo negò la possibilità a Landis di correre con lui perché, era stato beccato. Qualche secondo di silenzio fra i due, dopo il no, ti fanno realizzare che i due erano uguali, dopati, ma la carriera del texano era ancora in piedi “solo” perché “Non era mai stato trovato positivo ad un controllo antidoping”.
Questa frase rimbomba continuamente ed è la coperta di Linus del ciclista che pedala al limite in un mondo che i limiti continua a spostarli più avanti di anno in anno. Basta tornare al mio pomeriggio, nel quale ho esultato come un bambino per la vittoria di Matteo Trentin alla Parigi – Tours “volata” alla media record di 49,642. Mai in una corsa in linea si era andati così forte e se pensiamo che si era a fine stagione i quasi 50 km/h di media fanno ancora più impressione. Nessuna allusione e nessuna sorpresa, già nel 1999 in una tappa del Tour de France vinta da Mario Cipollini si era arrivati ai 50,355.
Passato, presente e futuro si inseguono e sono ciclici in uno sport come il ciclismo che fa della fatica il suo ingrediente principale, questo occorre ricordarlo e aggiungerlo in nota al film nel quale non si vede un secondo di allenamento che è parte integrante della vita di ogni ciclista. Per quanto mi riguarda “The Program” è un film che non cambia la mia idea su Armstrong che ha vinto sette Tour, su un sistema doping che esiste e sul ciclismo che per fortuna sopravvivrà ad Armstrong e nonostante il sistema doping. Io sono in pace con il mio sport del cuore e dell’anima perché quando decido di vedere “gratuitamente” una corsa ciclistica accetto di tifare, gioire, imprecare e piangere. Il mio film ce l’ho già in testa ben chiaro e i miei sentimenti e le mie emozioni sono state e saranno reali e non possono essere “squalificate” da nessuno.