Marta Fana, che per prima ha segnalato gli errori del ministero sui numeri di agosto, analizza i dati dell'Inps sui primi otto mesi: "C'è un po' di ripresa, ma non è strutturale. E il mercato del lavoro è dopato dagli sgravi: ogni nuovo contratto a tempo indeterminato è costato già 20mila euro"
“Il governo farebbe bene a studiare e fare molta meno propaganda ingannevole”. Marta Fana, dottoranda in Economia a SciencesPo Paris e collaboratrice de Il Manifesto, commenta così gli ultimi dati Inps sui contratti di lavoro. E’ lei che per prima ha segnalato l’errore del ministero del Lavoro sui numeri relativi ai contratti stabili ad agosto. Ora è l’istituto di previdenza a dare le cifre: nei primi otto mesi del 2015 i contratti a tempo indeterminato sono aumentati di 319mila unità rispetto allo stesso periodo del 2014. Ma la ricercatrice sottolinea che, a dispetto di quanto dicono le “groupies del Pd”, la verità è che ” i nuovi contratti pseudo stabili sono pochi”.
Questi dati dimostrano davvero che c’è la ripresa, come sostiene il governo?
Il governo farebbe bene a studiare e fare molta meno propaganda ingannevole che francamente non fa bene a nessuno. Esiste un po’ di ripresa, ma questa non è strutturale: nessuno sforzo in investimenti, in avanzamento tecnologico all’orizzonte. È tutta una questione di ciclo economico, e il mercato del lavoro al netto del ciclo è dopato dagli sgravi.
Eppure i numeri parlano di un aumento del tempo indeterminato rispetto all’anno scorso. Come vanno lette queste cifre?
Con due miliardi regalati alle imprese è il minimo vedere un segno più, dobbiamo chiederci quanto vale questo segno più. Quello che i dati dicono è che, al netto delle cessazioni, il numero di contratti netti a tempo indeterminato è di 91.663 tra il primo gennaio e fine agosto di quest’anno e rappresenta circa il 15% dei nuovi contratti totali. Il 77% sono contratti a termine e il residuo riguarda i contratti di apprendistato. Poi ci sono le trasformazioni, cioè quelle che in gergo vengono chiamate stabilizzazioni, anche se di stabile con il contratto a tutele crescenti non c’è nulla: queste sono 331.792. Molte di più dei nuovi contratti veri e propri. Questa è indiscutibilmente la prima evidenza da tenere a mente: i nuovi contratti pseudo stabili sono pochi, e di conseguenza anche la nuova occupazione.
Ma il Partito democratico festeggia il risultato. Il capogruppo alla Camera Ettore Rosato ha commentato: “Con #riforme, più lavoro stabile e precariato nell’angolo. Su 2014, +305% posti fissi: +319mila. #italiariparte”.
Più lavoro stabile è francamente un eufemismo: il governo ha svenduto i diritti dei lavoratori per una mensilità di indennizzo per anno lavorato nel caso di licenziamento senza giusta causa. Nel frattempo ha dato alle imprese quasi due miliardi in un anno per creare 90.000 posti di lavoro. Questo va detto e ripetuto costantemente. Allo stesso tempo, una cosa che non sappiamo è quanto durano questi nuovi contratti a tempo indeterminato, solo tra qualche anno potremo dire se sono mediamente stabili o meno. In ogni caso, vedere che il numero di cessazioni di contratti a tempo indeterminato è per giunta aumentato nel 2015 rispetto al 2014 ci fa capire che di stabilità al momento non c’è alcun segno se non sulla carta. Inoltre, vorrei ricordare che contratti a termine, part time involontario, voucher, somministrazione sono tutti contratti precari checché se ne dica, quindi quando valutiamo lo stato del precariato dovremmo tenere tutti questi elementi in considerazione, qualcosa che le “groupies” del PD non riescono a fare.
Si parlava dei voucher. Secondo l’Inps, nel 2015 ne sono stati venduti quasi 30 milioni in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con un balzo del 71%.
Il numero di voucher cresce in modo impressionante, da inizio anno sono più di 71 milioni di ore di lavoro pagate 7,50 euro e senza diritto a assegni di disoccupazione, maternità e malattia. Quindi non soltanto il precariato e lo sfruttamento, ma anche la discriminazione tra lavoratori continua ed è stata accentuata dal Jobs Act. Il rischio evidente ma su cui non ci sono informazioni è che questo strumento contrattuale sia usato per rapporti di lavoro che non sono salutari come invece dovrebbero, ma appunto sostituiscono lavoro subordinato a tutti gli effetti. Il lavoro accessorio doveva far emergere i lavoretti domestici in nero o quelli in agricoltura, ma in realtà i voucher sono usati soprattutto altrove: commercio, settori non identificati, eccetera. Nel 2014, per dare un’idea, circa 650milia nuovi individui hanno lavorato almeno un’ora tramite voucher.
Quanto hanno pesato il decreto Poletti e il bonus contributivo su questi dati?
Fare un’analisi rigorosa che studi l’impatto di ciascuna di queste determinanti attualmente è impossibile, mentre si possono fare ragionamenti descrittivi per capire più o meno le tendenze. Sicuramente, dato l’incessante aumento dei contratti a termine, sappiamo che il decreto Poletti ha avuto un discreto successo, non tanto nei primissimi mesi di applicazione quanto a partire da settembre dello scorso anno. Gli sgravi pesano enormemente sul contratto a tempo indeterminato, infatti la percentuale di nuove attivazioni indeterminate era dieci punti percentuali più elevata fino a marzo rispetto al dato di agosto (43 contro 33%). Ad oggi, ci ritroviamo con un costo relativo agli sgravi intorno a 1,8 miliardi di euro, il che significa che ogni nuovo contratto a tempo indeterminato è costato 20mila euro già solo nel primo anno.
Qual è l’influenza dei fattori macroeconomici (basso pezzo del petrolio, rapporto euro/dollaro favorevole, quantitative easing) sui numeri del lavoro?
Il basso prezzo del petrolio e di molte altre materie prime ha influito positivamente sull’economia di tutta l’eurozona e quindi anche sui relativi mercati del lavoro. Lo stesso vale per il cambio euro dollaro. Il quantitative easing non è una misura che spinge l’economia reale ma le banche e finora non pare abbia dato enormi frutti (sempre guardando alle risorse impiegate). Tuttavia, c’è da tenere a mente che negli ultimi due mesi l’economia mondiale ha rallentato, spinta dalla Cina ma anche dal Brasile, quindi non è detto che questi fattori macroeconomici riusciranno ancora a trainare la seppure debole ripresa italiana ed europea.