Una primavera e un’estate passate a seguire gli sbarchi di migliaia di persone nel sud Italia. Il loro veloce transito per una Capitale da troppo tempo incapace di dare una risposta politica adeguata ai suoi stessi abitanti e a queste persone il cui unico scopo è riposarsi un attimo per continuare il viaggio verso il Nord. Un’Europa che alza muri e chiude le frontiere. Il crollo di Schengen che per un’intera generazione, la mia, ha segnato l’inizio della cittadinanza europea, l’inizio della libera circolazione, non solo di capitali e merci ma anche di esseri umani. Una libera circolazione alla cui fine non stiamo assistendo senza rimanere inerti. I passaggi di migliaia di persone attraverso i “nostri” territori hanno risvegliato le coscienze di milioni di europei, segnando un netto distacco tra politica e società civile. Una società civile che ha detto no alle politiche restrittive degli Stati manifestando nelle piazze e nelle stazioni di tutta Europa, marciando per le strade a piedi scalzi, portando aiuti e solidarietà nei punti nevralgici di passaggio. Anche in Italia, a Roma, Milano e Ventimiglia.
Poi l’autunno. Si parla sempre meno di sbarchi e sempre più di quote. E di “hot spot” che se prima era lessico usato nell’alta moda e nella tecnologia, oggi diventa sinonimo di “campi”, strutture dove filtrare chi ha diritto a entrare in Europa e chi no.
Ma rimane alta l’attenzione sulla rotta balcanica, il nostro vicino Est.
Sento forte l’esigenza di vedere con i miei occhi e ascoltare con le mie orecchie cosa sta succedendo a pochi chilometri da noi. Per questo motivo con Giuseppe Chiantera, fotografo del collettivo Ulixes Pictures, decido di intraprendere questo viaggio via terra. Sicuramente tra Italia e Croazia, ai confini con la Serbia e l’Ungheria dei muri di Orban. Il nostro scopo non è “coprire le news”, la cronaca delle attuali migrazioni. Nè sostituirci alla narrazione di questi popoli pacificamente in marcia verso l’Europa. Perché lo stanno già facendo benissimo da soli attraverso un’autonarrazione fatta di post su Facebook, tweet e foto su Instagram. Quanto piuttosto riuscire a incontrare le persone che stanno aiutando questi popoli in marcia. Noi che da ragazzini abbiamo assistito al crollo dei muri, oggi non possiamo credere che si stiano rialzando barriere. Vogliamo osservare da vicino le “terre” che stanno testimoniando, ancora una volta, attraversamenti di persone. Quanta consapevolezza c’è in queste terre, e nelle persone che le abitano, dell’esser custodi di nuove e passate memorie di attraversamenti? È come se questi nuovi passaggi risvegliassero antiche e recenti memorie di fughe verso la salvezza. Eravamo all’inizio della nostra adolescenza e guardavamo in tv le immagini della guerra nell’ex Jugoslavia. Vedevamo ragazzini come noi che scappavano con le loro famiglie. Sentivamo tutto molto vicino. E ci faceva paura e rabbia. Oggi ci chiediamo quanti di quei ragazzini, che oggi sono adulti come noi, stanno aiutando altri ragazzini, famiglie, giovani e vecchi esausti dopo un lungo viaggio, a piedi e via mare. Prima dalla Turchia, poi Grecia, Macedonia e Serbia.
Da Roma arriviamo a Trieste. Da Trieste, in pullman verso Zagabria passando per Lubiana. La prima sorpresa è scoprire che percorrere pochi chilometri via terra è estremamente complicato. La Croazia è così vicina all’Italia, eppure i collegamenti sono pochi e lenti. Dopo più di quattro ore di pullman per poco più di duecento chilometri, arriviamo a Zagabria. Affittiamo subito una macchina e ci dirigiamo verso la Slavonia. Precisamente a Baranjsko Petrovo Selo, sul confine croato ungherese. Per arrivare in questo posto impronunciabile passiamo per Belišće, piccolo villaggio industriale di poco più di 6.000 anime fatto di strade in ricostruzione. E’ buio e siamo costretti a fermarci a Belišće per chiedere indicazioni perché il nostro Gps sembra essere impazzito. Entriamo nell’unico pub aperto che sembra un ritrovo del dopo lavoro. La maggior parte dei clienti sono uomini. Nessuno parla inglese. Un ragazzo ci fa segno di seguirlo in strada e attraverso i gesti ci dà indicazioni sulla strada da percorrere per arrivare a Baranjsko Petrovo Selo. Ci rimettiamo in macchina e dopo dieci minuti di aperta campagna eccola lì, la frontiera con l’Ungheria. La strada finisce davanti a un cancello di metallo. E’ aperto. Ai suoi due lati, il lungo muro che si perde a vista d’occhio nella campagna. Il muro, in realtà, altro non è che un reticolato alto circa due metri e ricoperto di filo spinato. Parcheggiamo la macchina e ci avviciniamo a piedi verso la polizia di frontiera croata. I poliziotti sono seduti davanti alla guardiola, fumano e chiacchierano. Uno di loro risponde al nostro “Hi!” con un annoiato “Journalists?”. Io e Giuseppe ci guardiamo. Che rispondere? Sappiamo che le autorità della regione a volte fanno problemi se sei giornalista, altre volte se sei attivista. “Journalists” confermo. Il poliziotto ci dice che possiamo fare foto e filmare ma fino al cancello, non oltre, perché gli ungheresi sono tipi nervosi. Ci racconta che i pochi profughi che passano da lì sono scortati in autobus. Vengono fatti scendere, camminare per pochi metri fino al cancello e presi in carico dagli ungheresi. Quello che succede dopo non lo sanno: è affare ungherese. Ci avviciniamo al cancello e al secondo muro di Orban che potrebbe esser chiuso da un momento all’altro. Immediatamente, sull’altro lato, si materializzano militari armati. Mostriamo le nostre carte d’identità e chiediamo se possiamo entrare. E’ una sensazione strana, quasi buffa: è come chiedere “permesso” prima di entrare in una casa. Ci chiedono perché vogliamo entrare. Noi spieghiamo che vogliamo vedere dove vengono ricevuti i migranti in transito. Poco più avanti vediamo una tenda della Croce Rossa e sullo sfondo una fila di autobus pronti in caso di nuovi arrivi. Ci dicono che il confine per ora è aperto come corridoio umanitario. Cerchiamo di avere più informazioni: quanti migranti transitano in quel punto? Con quale cadenza? Come si svolge la prima accoglienza? Possiamo visitare l’area? I militari si irrigidiscono. Uno di loro ci blocca: “Non siamo autorizzati a parlare con i giornalisti. Non potete stare qui. Non potete filmare, non potete registrare, non potete farci domande”. A chi possiamo chiedere? “A nessuno”. Perché? “Perché questo è l’ordine”. La conversazione si svolge sulla linea di confine. In quel tratto che non è più Croazia e non è ancora Ungheria. Inutile porre altre domande. La risposta è il silenzio. Ci invitano a fare un passo indietro, a rientrare in Croazia. Chiediamo se possiamo comunque passare e raggiungere a piedi l’altro lato, oltre la zona militare. Inutile. Ci invitano con un certo nervosismo a tornare indietro.
Torniamo verso la macchina. I poliziotti croati sono ancora seduti nel posto in cui li avevamo lasciati. Uno di loro ci chiede sorridendo se siamo riusciti a ottenere le informazioni che volevamo. “Ve lo avevamo detto che loro non sono facili”. Salutiamo e ci rimettiamo in macchina. Finalmente a Valpovo troviamo un posto dove dormire e mangiare. Nella sala dove ceniamo c’è solo un altro tavolo occupato da uomini che, inaspettatamente, parlano italiano: sono italo-croati. Giornalisti? Sì. La conversazione scivola inevitabilmente sulla “emergenza migranti”. “Ogni tanto vediamo passare colonne di pullman carichi di questi. Ma in giro, nei villaggi, non se ne vede neanche l’ombra – ci spiega l’uomo seduto a capotavola – vengono presi dal confine con la Serbia e trasportati con pullman o treni direttamente all’altro confine con l’Ungheria. Nessuno li vede circolare liberamente. Finché si tratta di farli transitare, nessun problema. Purché se ne vadano via velocemente. Questa zona deve fare i conti con una profonda crisi economica e l’ultima cosa che ci vuole, ora, sono i profughi”. Gli chiedo qual è la percezione degli abitanti dell’area nei confronti di questi “transitanti”. “In questa zona si è combattuto. Qui c’è stata la guerra. Il ponte che avete attraversato per arrivare al confine era la linea del fronte. Oltre il fiume c’erano i serbi che bombardavano e sparavano attraverso la boscaglia. La gente qui è rimasta a combattere, a difendere la propria terra e le proprie case. Non è scappata come stanno facendo i siriani”.
Rimango di sasso. E’ veramente questo il pensiero della maggior parte dei croati che ogni giorno, da mesi, assiste al transito di centinaia di migliaia di persone in fuga da guerre e violenze?
Continua