Non usa mezze parole il procuratore aggiunto di Latina Nunzia D’Elia: “E’ stata messa in pericolo la stessa libertà di stampa in questa città”. Scandisce la frase, guardando il giornalista de Il Messaggero Vittorio Bongiorno, presente in sala durante la conferenza stampa della Procura sull’operazione “Don’t touch”. A lui erano dirette le dure minacce di Gianluca Tuma, una delle menti dell’associazione criminale cresciuta attorno alla figura di Costantino “Cha Cha” Di Silvio, il boss Sinti che ha terrorizzato un’intera città. Lo scorso 11 gennaio Tuma puntava il dito sul viso del cronista del quotidiano romano, alla fine di una messa nella cattedrale della capitale pontina: “Hai visto cosa è accaduto in Francia ad usare la penna scorrettamente?”.
“Il giornalista percepiva immediatamente – scrive il giudice Cario – la portata intimidatoria dell’avviso che si riferiva evidentemente a quanto accaduto quattro giorni prima a Parigi ove appartenenti a organizzazione terroristica internazionale avevano aperto il fuoco uccidendo alcuni giornalisti del periodico satirico Charlie Hebdo. E’ evidente che la minaccia di morte sia profferita dal Tuma al giornalista al fine di impedite ce lo stesso riporti il suo nome associandolo a indagini in corso”. Bongiorno aveva firmato un articolo sull’imprenditore Massimiliano Mantovano, arrestato nel 2014 per la storia degli appalti truccati negli aeroporti secondari del Lazio. Basandosi sulle carte dell’inchiesta aveva raccontato come le “belve di scorta” di Mantovano fossero lo stesso Tuma e “Cha Cha”, ovvero i due esponenti di punta dei clan Sinti di Latina. Un legame che le perquisizioni effettuate dopo gli arresti di martedì hanno confermato, aprendo la strada a nuovi filoni d’indagine, che da Latina potrebbero allargarsi verso la Capitale. Sulle minacce a Bongiorno interviene anche Libera Latina: “Esprimiamo ferma condanna e totale solidarietà e corresponsabilità agli operatori del mondo dell’informazione”. “In particolare – continua una nota dell’associazione – ribadiamo la nostra vicinanza al cronista de ‘Il Messaggero’, Vittorio Bongiorno, che ha subito pressioni da parte della criminalità organizzata”.
Le minacce agli investigatori – La città, per il clan, era divisa in due. C’era chi li appoggiava, in nome magari di vecchie amicizie che non si volevano o potevano rinnegare. Un lungo elenco di politici, imprenditori, funzionari pubblici, poliziotti e carabinieri infedeli, pronti a chiedere e a fornire appoggi e favori, sapendo che quei parenti di Vittorio Casamonica contavano in città. Muovevano soldi, tantissimi milioni, gestivano posti di lavoro, affari. E consenso. C’era poi la lista – molto più corta – di chi aveva ben capito il loro peso criminale. Non solo i giornalisti con la schiena dritta come Bongiorno, ma anche gli investigatori. Come il questore De Matteis e il capo della mobile Tommaso Niglio. Investigatore di razza, che da quando è arrivato a Latina ha capito subito come tirava il vento. Spiegava senza tanti giri di parole “Cha Cha” Di Silvio in una telefonata intercettata a al suo fedelissimo Tuma: “èèèh….mo quando lo becco (si riferisce al capo della mobile Niglio, ndr) ti faccio vedere…gli dico ‘Dottò non me lo aspettavo da te…non ti allargare tanto con me è? ..io sono bravo e rispettoso e lo sai come sono fatto…non ti allargare proprio perché mo hai solo da perdere hai’ …a lui gli rode il culo perché io sto con….sto con..(inc) con i politici e gli rode il culo capito…schiatta dentro…lui e De Matteis schiattano dentro”. Sapevano, gli affiliati al gruppo Di Silvio, che le indagini puntavano a loro, grazie alle soffiate di due carabinieri e di un poliziotto, poi arrestati nel corso della retata. E sapevano che la Procura e la squadra mobile avevano pienamente intuito il peso di quei Sinti ormai stanziali: non solo criminale ma una rete che aveva gangli chiave nei palazzi del potere. Un livello politico che appare ancora sfumato, ma che dà peso e consistenza agli arsenali di armi da guerra, al fiume di cocaina e all’intimidazione continua e diffusa.
Quando basta il nome – Se nella Roma di Mafia Capitale bastava citare il nome di Massimo Carminati per aprire tutte le porte, a Latina era il gruppo di “Cha Cha” a creare vero e proprio terrore. Nei negozi di abbigliamento i Sinti del gruppo Di Silvio prendevano quello che volevano senza pagare: “Non è più neanche necessario – commentano gli investigatori – che il Di Silvio si rechi personalmente presso gli esercizi commerciali a imporre la sua volontà, ma è sufficiente che preavvisi telefonicamente i titolari del fatto che di lì a poco andranno persone a effettuare acquisti”. Una depredazione che appare chiarissima in una intercettazione ambientale tra Salvatore Travali e lo stesso “Cha cha”:
Salvatore TRAVALI:..Ieri Palletta è venuto da M…tutto a buffo…porco (bestemmia) ci è cascato un’altra volta sto cesso…te lo giuro…gli ha dato i vestiti ad Angelo..i vestiti a Guerrino…è proprio coglione comunque Massimo…e proprio coglio…lui se le è andata a cercare…è stupido… gli sta bene… glielo hai detto tu l’ altra volta non dargli più niente?…
Costantino DI SILVIO: Si…
Salvatore TRAVALI: è… e lui gli ha dato tutto quanto…gli ha dato…
Costantino DI SILVIO: e sti cazzi…ha fatto bene… gli sta bene…
Salvatore TRAVALI: eh eh gli sta bene infatti … va a morì ammazzato… gli ha preso tutte le magliette di tutti i tipi…i pantaloni..due pantaloni a Guerrino della Jeckerson…e due maglioncini a Guerrino..e due magliette a Guerrino…e poi pure a lui..gli sta bene gli sta ..ehhh…gli stavi a dire pure tu quella volta..non gli dare più niente…vaffanculo va…grande Palletta è andato pure da F. (uno dei negozi più importanti di Latina, ndr) e gli ha fatto 3000 euro pure da F. Hihi (ride)…
Un clima, quello che si respira a Latina, che lo scorso anno ha raggiunto il culmine con le minacce al giudice Lucia Aielli, il magistrato che, tra l’altro, si era occupata anche del caso Fondi. Una mattina nel centro della città erano apparsi manifesti funebri con il suo nome, annunciando la data del decesso. Intimidazioni dirette e pesanti, che portarono la prefettura predisporre una tutela. A distanza di tempo gli autori di quel gesto macabro sono ancora sconosciuti, mentre il giudice Aielli ha lasciato la città per trasferirsi in Cassazione.