L'economista Roberto Perotti secondo il Corriere vuole lasciare, ma Renzi gli ha chiesto di rimanere promettendo un cambio di passo. Nella manovra però i risparmi rischiano di essere la metà rispetto agli annunci, con il risultato che le clausole di salvaguardia saranno disinnescate solo in parte
Non solo la spending review arranca, ma nella legge di Stabilità che il governo si appresta a varare giovedì i risparmi sulla spesa pubblica rischiano di risultare dimezzati rispetto ai 10 miliardi annunciati. Così Roberto Perotti, docente alla Bocconi e collaboratore del sito lavoce.info che affianca il commissario alla revisione della spesa Yoram Gutgeld, ha messo sul tavolo le proprie dimissioni. A rivelarlo è il Corriere della Sera, secondo cui Matteo Renzi le ha rifiutate e ha chiesto all’economista di rimanere, garantendogli che da ora in poi la macchina funzionerà meglio, i tempi degli interventi saranno più certi, gli interlocutori più chiari e il mandato politico più forte. Promesse che cozzano con i precedenti, visto che per una trentina d’anni commissari ed esperti hanno tentato senza successo di contenere le uscite dello Stato finendo poi per gettare la spugna. E l’esecutivo Renzi non sta ottenendo risultati migliori nel mettere a segno i tagli.
Così è probabile che le clausole di salvaguardia, cioè gli aumenti automatici di Iva e accise previsti da precedenti manovre se il governo non troverà coperture alternative, saranno “disinnescate” solo in parte. Peraltro utilizzando i proventi della legge sul rientro dei capitali e facendo più deficit: non a caso Palazzo Chigi intende chiedere alla Commissione Ue di concedere all’Italia circa 16 miliardi di “flessibilità” invocando la clausola delle riforme, quella degli investimenti e pure quella nuova di zecca per “l’emergenza migranti“. Tutto da vedere come risponderà Bruxelles, che due giorni fa ha bocciato la manovra della Spagna perché non in linea con il patto di Stabilità.
Che la annunciata “spending review 2.0” non procedesse secondo programmi è chiaro dalla fine dell’estate. E nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza Palazzo Chigi e il Tesoro hanno messo nero su bianco che il profilo dei tagli sarà “più graduale” rispetto a quanto previsto nella prima versione del Def, approvata lo scorso aprile. Ammissione che ha inquietato i tecnici del Senato, intervenuti due settimane fa per chiedere al governo di “supportare tale affermazione con indicazioni qualitative e quantitative in ordine alla tipologia e all’entità delle misure di revisione della spesa”.
Alla vigilia del varo della Stabilità, secondo la ricognizione del quotidiano di via Solferino, quel che emerge è che le sforbiciate non arriveranno nemmeno a 7 miliardi: si fermeranno a 5. Niente tagli ai sussidi alle imprese né riduzioni degli sconti fiscali (deduzioni e detrazioni). Quanto ai risparmi attesi dalla riforma della pubblica amministrazione, sono rimandati ai decreti attuativi del disegno di legge. Che erano stati annunciati per settembre ma non si sono ancora visti. Di conseguenza Gutgeld e Perotti, che sono partiti dai dossier dei gruppi di lavoro dell’ex commissario Carlo Cottarelli, hanno dovuto limitare gli interventi alla razionalizzazione degli acquisti della pubblica amministrazione (con la riduzione delle stazioni appaltanti da 32mila a 35) e ai soliti tagli semi lineari ai ministeri. Il resto arriverà da un’ulteriore riduzione, pur mascherata da “mancato aumento”, dei fondi per la sanità.
Non si può non ricordare la profezia della Corte dei Conti, che lo scorso febbraio aveva ammonito: “L’effettiva realizzazione della spending review appare un traguardo molto difficile allorché ci si misuri con le limitate categorie di spesa realisticamente aggredibili, anche perché i margini ancora disponibili per ulteriori tagli sono ridotti dalle ripetute riduzioni di risorse intervenute negli ultimi anni”.