A proposito del dibattito avviato da il Fatto Quotidiano sull’attuale involuzione terminologica, mi limito a osservare che ogni stagione del nostro italico parlare si è impigliata nel suo particolare “attimino”; la parola fashion, appiccicosa e invadente, che nidifica all’insaputa del parlante in ciò che dice: un riflesso neurovegetativo, dunque intenzionale e con effetti a tormentone. La “parola orribile”, oggetto della campagna redazionale apparsa sulla nostra testata, fastidiosa come una lisca linguistica infilata tra i denti, eppure rivelatrice di qualcosa che aleggia nel microclima del tempo; un andamento mentale seppure a scartamento ridotto.
I meno giovani ricorderanno – quasi mezzo secolo fa – gli interventi riprodotti con lo stampino dei leaderini sessantottardi nelle assemblee studentesche, in un florilegio di francesismi tipo “al limite” e “nella misura in cui”. Spie del vassallaggio psicologico nei confronti degli esempi di maggiore creatività politica che giungevano d’Oltralpe con il Joli Mai contestativo. Conformismo alternativo di presunti anticonformisti.
Tra gli anni Ottanta e Novanta fiorì la stagione dell’anglo-meneghino consulenzialese, segnato dalla mania di “implementare”; con riferimento a qualunque baggianata marchettara. Era il periodo in cui iniziava a risuonare lo slogan ideologico “imprenditorializzatevi”, con cui le logiche aziendalistiche venivano gabellate quale panacea di un Paese la cui perdita di spinta propulsiva stava apparendo in tutta evidenza. Poi abbiamo constatato l’inettitudine del berlusconismo, abbiamo seguito le parabole dei Tronchetti Provera e dei Cordero di Montezemolo, sicché a credere negli incantesimi dell’uomo solo al comando c’è rimasto soltanto il “renziano medio” (sulla scia del suo Gran Capo: un vero dissipatore di prontuari della lingua italiana, mediante l’appropriazione indebita dei vocaboli; a partire da “riforma”, storpiata quale sinonimo di “presa per i fondelli dell’elettorato spacciando come miracolistici provvedimenti regressivi graditi alla Bella Gente, con cui cenare a sbafo addebitando il conto al Comune di Firenze”).
Proseguendo, quali significati latenti nasconderebbe oggi la ricorrente ossessione delle masse pavlovizzate dall’appello all’attimino? Si può dedurre che questa richiesta di autorizzazione a prendere tempo, fattasi tic verbale, risulta il nitido specchio di uno smarrimento dilagante; nel momento in cui tutte le certezze e i riferimenti orientativi sono completamente saltati.
In conclusione: niente di nuovo nella natura plastica del linguaggio, che ingloba evolutivamente significati, neologismi ed esterofilie a scopo espressivo (seppure con qualche sporadica ed eventuale caduta di gusto sotto forma di piegatura gergale o intromissione triviale)? Semmai l’aspetto preoccupante non è tanto estetico-formale quanto di governo della trasformazione: funzionale al deliberato potenziamento della capacità comunicativa o – invece (come già si accennava) – subita nei suoi effetti di conformistizzazione del pensiero attraverso l’omologazione dei modi di dire?
Se è “buona la seconda”, allora due sono le derive su cui scorre l’odierna mutazione linguistica: sciatteria e incanaglimento.
Parliamo sciatto perché si è impoverito il modo con cui pensiamo e scriviamo. Effetto dell’eccesso di semplificazione per blandire moltitudini esentate dalle fatiche dei processi educativi e di raffinazione; per assecondare le carenze certificate ipocritamente come genuinità: non vale la pena di approfondire le questioni se ci spiegano che i problemi si risolvono con uno schiocco delle dita; a che pro’ curare i testi, quando i format dei blog e dei tweet valorizzano la retorica del singulto.
Pratichiamo la canaglieria se al sistema di valori che premiava impegno e decoro si sostituiscono i codici della distinzione propri della neoborghesia cafona, con il suo ostentato repertorio da suburra accreditato dai passaggi televisivi di avventurieri del talk show; tipo i dannunziani di provincia alla Vittorio Sgarbi.
Sciatteria e canaglieria diffuse per coprire demagogicamente titanici processi di esclusione e ricastalizzazione della società. Occultati tra le parole del tempo.
“Parla come mangi”, si diceva.
Parliamo male non perché vittime di qualche chiodo solare, bensì perché mangiamo il pane raffermo e il cibo avariato di un tempo intimamente volgare.